La palude della violenza tribale

Senza esame di coscienza non esiste possibilità di correzione, né per l’individuo né per la società.

Di Salman Masalha

image_3268“Re dei re dell’Africa” non è che uno dei tanti titoli di cui Muammar Gheddafi si era insignito nel corso degli anni. La scorsa settimana il mondo intero ha visto il “re dei re” perdere la vita, insieme a tutti i suoi appellativi. In una macabra danza tremolante sullo schermo di un video-telefonino, il sipario è calato sul regime del colonnello. Non indossava uno dei suoi coloratissimi abiti e turbanti, non aveva uno scettro d’oro nella mano né una corona sul capo. Aveva i capelli scompigliati, la camicia strappata e il sangue gli colava dalla testa coprendogli il viso. Al momento di morire, il “re dei re” che cercava di salvarsi la vita dopo quarantadue anni di dispotismo era circondato da una folla esultate intenta a rovesciare la versione libica di Moloch, la divinità citata nella Bibbia a cui i fedeli sacrificavano i propri figli.
Il sangue che colava dal capo di Gheddafi non è nulla di nuovo. In verità l’uomo, membro di una tribù chiamata Gadhaf al-Dam (“colui che getta sangue”), aveva fatto scorrere molto, molto più sangue durante i suoi anni di imperio spietato, sangue di libici e di non libici. Non si è meritato nemmeno il processo farsa usualmente riservato ai tiranni, come quello che precedette l’esecuzione del dittatore rumeno Nicolae Ceausescu. Al suo posto, il “re dei re” ha avuto in sorte un altro tipo di “giustizia”, conforme alle regole che predominano nel deserto arabo da generazioni.
Questo è un deserto in cui un’autentica primavera si rifiuta di attecchire. Le urla di vittoria e le grida “Allah Akhbar” (Dio è grande) che circondavano il deposto “re” sono state l’appropriata colonna sonora per quel rito infernale. Stavolta la belluina esultanza non è servita per coprire le grida di dolore di un bambino sacrificato, ma gli ultimi gemiti del Moloch stesso.
È così che i capi arabi sono sempre morti, in tutta la storia. In verità, quasi tutti i i califfi che hanno regnato sul mondo musulmano sono morti in modo simile. Ogni scolaro arabo lo impara sui libri di storia. Sono numerosi gli esempi, come l’assassinio del terzo califfo (successore) di Maometto, Uthman ibn Affan. La descrizione del suo omicidio si può trovare negli scritti di Mohammed al-Tabari, il grande storico arabo del IX secolo: “Amru al-Hamq si avventò su Uthman, gli sfondò il torace mentre ancora respirava e lo pugnalò nove volte”. Tabari cita anche le parole dello stesso omicida: “L’ho accoltellato tre volte in nome del Cielo. Le altre sei volte l’ho pugnalato per tutti i sentimenti di vendetta che nutrivo contro di lui”. Non basta. Narrano le fonti che, dopo la sua morte, la gente gettò il corpo del califfo in un immondezzaio. Venne sepolto solo tre giorni più tardi, quando i cani randagi avevano iniziato a farne a brani il cadavere. Tale è il modo in cui si comporta questo mondo da tempo immemorabile, affondando incessantemente nell’oscuro pantano tribale senza riuscire a tirarsene fuori.
Il più grande impedimento posto dalla cultura araba è l’assenza di un meccanismo di auto-correzione. Per capire il problema che pone questo ostacolo basta ricordare che delle migliaia di detti attribuiti al profeta Maometto, non ce n’è uno solo che dica all’uomo di svolgere un qualsiasi tipo di esame di coscienza. Ma senza introspezione non esiste possibilità di correzione: né per l’individuo, né per la società.
Finché il mondo arabo non riuscirà a inserire serenamente nel proprio lessico concetti come “ex presidente” o anche “ex re”, non potrà districarsi dalla cronica arretratezza in cui è arenato da centinaia di anni. Solo una società capace di introspezione e di esame di coscienza può emergere dal suo oscuro passato e marciare con fiducia verso un futuro diverso. Altrimenti continuerà a naufragare nella solita palude di violenza.

(Da: Ha’aretz, 24.10.11)

Nella foto in alto: il poeta, scrittore e saggista arabo israeliano della comunità drusa, Salman Masalha, autore di questo articolo. Masalha, fra l’altro, insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università di Gerusalemme