La patata bollente palestinese, tra Gerusalemme e Amman

Ciò che un tempo univa giordani e israeliani, oggi li divide su temi che entrambi considerano vitali.

Di Asher Susser

image_3059Nei primi anni ’60, quando re Hussein di Giordania aveva a che fare, in Egitto, con il regime di Gamal Abdel Nasser, votato ad esportare il suo fervore rivoluzionario, il giovane re pubblicò un’autobiografa intitolata “Uneasy Lies the Head” (Inquieta giace la testa). Prendendo spunto dall’Enrico IV di Shakespeare (“inquiete giacciono le teste coronate”), Hussein caratterizzava la sua condizione in un modo che potrebbe applicarsi oggi a re Abdullah II, suo figlio ed erede.
L’Egitto è di nuovo la fonte di ispirazione del fervore rivoluzionario. Oggi, tuttavia, lo spirito rivoluzionario è generato dalle masse, che cercano di rovesciare il regime eretto da Nasser e dai suoi successori, mentre Abdullah si appresta ad affrontare le ricadute del Cairo nelle strade di Amman.
Incoraggiati dai movimenti di protesta che inondano le piazze arabe dalla Tunisia all’Egitto allo Yemen, nei giorni scorsi dei manifestanti guidati dalla Fratellanza Musulmana sono scesi per le strade in Giordania, chiedendo riforme politiche centrate su un ridimensionamento dei poteri della monarchia. L’intensità delle proteste non è paragonabile al turbine che ha scosso l’Egitto sin nel profondo, ma senz’altro è motivo di preoccupazione per Abdullah e per il suo nuovo governo. Cosa particolarmente vera a causa della spiacevole combinazione di trend potenzialmente destabilizzanti che sono venuti a maturazione simultaneamente, negli ultimi anni.
Come altri stati arabi, la Giordania deve fare i conti con difficoltà economiche strutturali, ed elevati tassi di disoccupazione e di povertà recentemente aggravati dall’aumento dei prezzi di cibo e carburante. Ciò che rende le cose peggiori, dal punto di vista del regime, è che negli anni scorsi i giordani originari della Transgiordania – antica base sociale del regime – hanno espresso forti riserve riguardo alla politica interna.
A partire dagli anni ’70 si è andata instaurano una divisione funzionale in base alla quale i giordani originari erano i padroni incontrastati dell’influenza politica, mentre i giordani palestinesi – circa metà (forse più) della popolazione – dominavano nell’economia e nel settore privato. Quando nuove difficoltà economiche hanno costretto il governo a ridurre la spesa, i giordani originari ne hanno generalmente subito le conseguenze in modo più pesante dei loro concittadini palestinesi, che erano molto meno dipendenti dalla prodigalità del governo e dai suoi posti i lavoro. Nel corso degli anni è emersa una tendenza ultranazionalista, militante e influente, votata a sradicare l’influenza dei palestinesi e il loro vantaggio economico, reale o percepito. Nel lungo periodo, persegue l’emigrazione di quanti più palestinesi possibile in un futuro stato palestinese in Cisgiordania e striscia di Gaza, e nello stesso stato di Israele. Gli sforzi da parte del re di introdurre riforme politiche sono stati spesso ostacolati dalla élite conservatrice transgiordana che temeva che un regime più liberale permettesse, a sue spese, una maggiore integrazione dei cittadini palestinesi nelle politiche del regno. Allo stesso tempo, le (eccessive) aspettative legate alla pace con Israele sono rimaste in larga parte inesaudite. Quella pace non è stata la panacea di tutti mali dell’economia giordana. E, cosa ancora più inquietante per i giordani, israeliani e palestinesi non sono riusciti nell’impresa di trasformare gli accordi di Oslo in un accordo finale.
Nel corso degli ultimi venticinque anni i giordani hanno continuamente sviluppato una paura ossessiva per il “complotto della patria alternativa”, e un interesse vitale nella creazione di uno stato palestinese. Secondo la loro opinione, se in Cisgiordania e striscia di Gaza non nasce nessuno stato palestinese, lo scontro fra Israele e palestinesi finirà col culminare nella migrazione o espulsione di palestinesi in Giordania (la “patria alternativa” dei palestinesi). In questo scenario da incubo, i veri perdenti non sarebbero né gli israeliani né i palestinesi, ma appunto i giordani.
Dopo il fallimento dei colloqui di Camp David (2000) e la seconda intifada, la paura giordana di questo scenario da incubo è riemersa come se il trattato di pace non fosse mai stato firmato. Nel 2003, l’invasione americana dell’Iraq e la conseguente minaccia di una disintegrazione dello stato iracheno, unita alla crescente influenza iraniana in Iraq e nel resto della regione, hanno seriamente aggravato il senso di soffocamento strategico dei giordani. Adesso si trovano fra due poli di instabilità regionale, con il caos dell’Iraq a est e l’enigma israelo-palestinese a ovest. È un genere di situazione in cui certamente non pensavano di doversi trovare dopo aver fatto la pace con Israele, resa ora infinitamente peggiore dalle scosse che scuotono gran parte del mondo arabo.
Una delle principali ragioni del fallimento dei negoziati israelo-palestinesi è l’incapacità delle parti di trovare un accordo sulla questione del cosiddetto “diritto al ritorno”. La posizione di Israele è stata condannata con veemenza dai giordani, che di nuovo vedono lo spettro di un insediamento di profughi (e loro discendenti) in Giordania come precursore dello scenario della “patria alternativa” (palestinese). La posizione israeliana, ritengono i giordani, non solo è di ostacolo a un accordo con i palestinesi, ma minaccia anche di addossare definitivamente sulla Giordania una enorme popolazione palestinese.
Ed è così che le posizioni di Giordania e Israele risultano diametralmente opposte su un tema che entrambe le parti considerano di importanza vitale. Non a caso furono i giordani e i libanesi i responsabili – nel 2002 e di nuovo nel 2007 – dell’aggiunta alla “iniziativa di pace” della Lega Araba dell’assoluto “rifiuto di qualunque forma di reinsediamento (dei profughi)”, rendendo l’iniziativa irricevibile da parte di Israele.
In passato il comune timore di giordani e israeliani di essere sopraffatti dalla popolazione palestinese li spinse verso tacite intese strategiche. Oggi lo stesso timore condiviso li separa. Osservando da Amman un mondo arabo sempre più instabile, e considerando le implicazioni che qualsiasi sconvolgimento regionale potrebbe avere per le politiche interne giordane, è facile concludere che la corona hascemita è, come minimo, “inquieta”.

(Da: Jerusalem Post, 9.2.11)

Nella foto in alto: Asher Susser, autore di questo articolo