La Road Map non è la strada giusta. Per ora.

Occorrono invece ulteriori mosse unilaterali da entrambe le parti.

Da un articolo di Shlomo Avineri

image_876Il completamento del disimpegno dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania nord-occidentale solleva la questione su quali debbano essere le prossime mosse politiche. Vari soggetti internazionali, così come vari gruppi in Israele, parlano di un tentativo di tornare all’iniziativa do pace della Road Map mediata dagli Stati Uniti.
Non può esservi errore più grande. La Road Map non è mai stata più che una semplice lista di desideri: la realtà è che tutto ciò che si è prodotto sul terreno, cioè un ritiro israeliano di significato storico e una relativa calma nelle violenze da parte dei gruppi terroristici palestinesi, non è scaturito dalla Road Map, bensì dalla volontà politica delle due parti.
Sarà così anche in futuro. Il divario fra le posizioni israeliani e quelle palestinesi, emerso nei negoziati di Camp David del luglio 2000, non è stato ridotto. È più probabile che sia vero il contrario, dopo quattro anni di massicci attacchi terroristici palestinesi e dure risposte israeliane.
Chiunque pensi che si possano risolvere adesso le differenze relative ai confini definitivi, al futuro di più di 200.000 israeliani in Cisgiordania, alle questioni di Gerusalemme e dei profughi palestinesi vive semplicemente in un mondo di illusioni.
Anche un’agenda più limitata, come negoziati per la creazione di uno stato palestinese dentro “confini provvisori”, non è elastica. È chiaro che i palestinesi insisteranno affinché l’accordo delinei anche i confini permanenti di un tale stato, cosa che Israele non accetterebbe.
E dunque, cosa si può fare? Solo alcune ulteriori mosse unilaterali da entrambe le parti. Da parte israeliana: considerare seriamente la possibilità di disimpegnarsi da una ventina di villaggi isolati in Cisgiordania. Tale mossa, nonostante le intrinseche difficoltà, è politicamente fattibile e garantirebbe ai palestinesi un’area dotata di continuità territoriale.
Da parte palestinese: il rafforzamento del controllo dell’Autorità Palestinese sui suoi servizi di sicurezza e gruppi armate, compresa Hamas. Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sa bene che nessun governo israeliano intavolerà colloqui con lui se non sarà padrone in casa sua. Abu Mazen ha già formulato l’obiettivo di avere “un solo governo, una sola legge, una sola arma”: ora potremo vedere se è capace di realizzarlo. Inoltre, c’è bisogno dell’avvio di un processo interno palestinese con il quale la dirigenza dica ai profughi nei campi, contrariamente alla propaganda di cui si sono nutriti per cinquant’anni, che non torneranno all’interno di Israele. Chi dice che questo processo per i palestinesi sarà difficile ha ragione. Anche lo sgombero da Gush Katif è stato difficile. Sono indispensabili decisioni dolorose, ma da entrambe le parti, non solo da parte israeliana.
Queste mosse ridurrebbero gli attriti e forse potrebbero gettare le basi per futuri colloqui significativi. Chiunque voglia precipitarsi a negoziare adesso è destinato al fallimento. E tale fallimento, come si è visto a Camp David, non significa semplicemente tornare al punto di partenza, bensì precipitare in un abisso.

(Shlomo Avineri, scienze politiche Università di Gerusalemme, su: YnetNews, 1.09.05)

Nella foto in alto: Shlomo Avineri, autore di questo articolo