La saga turca e l’Occidente

L'Occidente – Israele incluso – deve decidere con chi vuole, o con chi può avere a che fare in Turchia (e in Egitto)

Editoriale del Jerusalem Post

Il deposto presidente Mohamed Morsi e il premier turco Recep Tayyip Erdogan (in una foto d’archivio)

Il deposto presidente Mohamed Morsi e il premier turco Recep Tayyip Erdogan (in una foto d’archivio)

Il premier turco Recep Tayyip Erdogan è stato uno dei più strepitanti critici del rovesciamento del presidente egiziano Mohamed Morsi. Lui e Morsi sono fatti della stessa stoffa islamista e tutti e due avevano avviato una purga graduale contro i militari. Erdogan, tuttavia, ha potuto partire molto in anticipo, mentre in Egitto i diffidenti generali, che hanno visto come andavano le cose ad Ankara, hanno bloccato per tempo Morsi, l’ultimo arrivato.

Non molto tempo dopo la deposizione di Morsi, l’estenuante saga turca ha raggiunto il culmine con la condanna all’ergastolo dell’ex capo di stato maggiore Ilker Basbug per il suo ruolo in un presunto complotto volto a rovesciare Erdogan. Con Basbug, sono state processate quasi trecento altre persone, tra cui politici e giornalisti di primo piano. Tre parlamentari dell’opposizione sono stati condannati a pene fra i 12 e i 35 anni ciascuno.

Superficialmente tutto questo può essere presentato come una vittoria della democrazia, così come con altrettanta superficialità si può descrivere la sollevazione egiziana come un colpo di stato contro la democrazia. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è su questa linea. Nel corso degli anni ha sostenuto senza riserve Erdogan, nonostante i suoi eccessi, non solo in quanto scelto dal popolo, ma anche come un primo esempio della apparente compatibilità fra religiosità islamica e democrazia. Per le stesse ragioni Obama ha appoggiato Morsi. E l’Europa l’ha seguito con manifesta solerzia.

Il presidente israeliano Shimon Peres accano al posto lasciato vuoto dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan quando ha bruscamente lasciato il forum di Davos il 29 gennaio 2009 in polemica con Israele sulla questione di Gaza

Il presidente israeliano Shimon Peres accano al posto lasciato vuoto dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan quando abbandonò bruscamente il forum di Davos il 29 gennaio 2009, in polemica con Israele sulla questione di Gaza

Peccato che i leader del mondo libero non abbiano capito quello che disse Shimon Peres nel 1980, dopo l’ultimo tentativo dei generali turchi di prendere il potere e imporre la loro volontà (per la terza volta dal 1960). In quell’occasione Peres aveva sottolineato che la Turchia smentisce il concetto comunemente accettato secondo cui i militari sono sempre un fattore anti-democratico (ma già era stato smentito dal Portogallo 1974). Nel caso della Turchia, sostenne Peres, i militari sono i custodi della democrazia.

Nel corso dei decenni da quando il padre fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk, ha salvato il paese dalla decadenza ottomana, sono i militari turchi quelli che ne hanno difeso la moderna costituzione, impedendo il riemergere del dominio clericale musulmano. Il che non avrà dato vita a una democrazia liberale in termini occidentali, ma ha eretto un baluardo contro la reazione, configurandosi così come il minore dei mali possibili.

Qualcosa del genere è accaduto in Egitto, dove l’esercito è sempre stato dietro a ogni raìs, da Gamal Abdel Nasser a Hosni Mubarak. Obama non l’ha capito in Turchia, e ha male interpretato l’Egitto tanto da abbandonare Mubarak e inaugurare l’egemonia dei Fratelli Musulmani. Ma lo scenario che sfuggiva a Obama veniva letto correttamente al Cairo e ad Ankara. I generali sotto scacco in Egitto non hanno mancato di trarre conclusioni operative da quello che stava accadendo ai loro colleghi turchi, mentre Erdogan dal canto suo comprendeva al volo cosa significava la cacciata di Morsi. Erdogan si è scagliato con veemenza contro i capi militari egiziani, non da ultimo perché si erano risparmiati di fare la stessa fine dei suoi avversari.

Erdogan ha gestito un pezzo alla volta una trasformazione i cui effetti cumulativi diventano sempre più intollerabili per i ceti laici turchi in ascesa. Il ritorno all’abbigliamento islamico per le donne, che Ataturk aveva bandito, le lezioni obbligatorie di Corano nelle scuole, le restrizioni alla vendita di alcolici e persino il divieto del rossetto per le hostess delle compagnie aeree turche: tutto si tiene. “Insultare l’islam” è diventato un reato punibile dai tribunali controllati dal governo. Intanto il partito di Erdogan, cresciuto grazie a una martellante campagna contro la corruzione, viene ormai percepito come più corrotto dei suoi stessi predecessori. Il culto della personalità di Erdogan, esemplificato nei suoi onnipresenti ritratti, non fa che esacerbarne l’antipatia, così come fanno i suoi scoppi di ingiurie, del tipo che spesso e volentieri ha rivolto contro Israele, ma che si moltiplicano anche contro bersagli interni. Il pugnace Erdogan punta ora a correre per la presidenza, dato che non può fare il primo ministro per un altro mandato. Per questo mira a cambiare le regole del gioco e a rendere la presidenza più potente. I ceti urbani turchi relativamente europeizzati hanno di che preoccuparsi.

Come aveva detto Peres tanti anni fa, il Medio Oriente demolisce i luoghi comuni. In questa regione i laici liberali ripongono la loro fiducia nei militari, mentre le forze dell’islam sono i loro avversari ben poco democratici (si ricordi l’Algeria degli anni ’90). Fare a pezzi la gerarchia militare, per non dire eliminarla del tutto, significa rafforzare i fondamentalisti e avvicinare sempre più la teocrazia. Nessuna di queste alternative è veramente democratica, ma l’Occidente – Israele incluso – deve decidere con chi vuole, o con chi può avere a che fare.

(Da: Jerusalem Post, 8.8.13)