La Sindrome della Parte Terza

Molti pensano che il nodo gordiano del conflitto possa essere risolto solo con l’ingresso di forze straniere

Da un articolo di Calev Ben-David

image_1857Lo scoppio della seconda intifada nel 2000, e il concomitante collasso degli Accordi di Oslo, ha causato anche una preoccupante epidemia di una particolare affezione politica ricorrente che potremmo chiamare la Sindrome della Parte Terza. Si tratta della convinzione, o illusione – quasi una fede messianica per alcuni interlocutori e osservatori specializzati in Medio Oriente – che il nodo gordiano del conflitto israelo-palestinese possa essere risolto meglio, o soltanto, ricorrendo all’introduzione di osservatori, amministratori o anche truppe internazionali nei territori di Cisgiordania e striscia di Gaza.
Se era del tutto prevedibile che siffatto appello provenisse da diverse capitali arabe ed europee – come è stato quasi sempre dal 1967 in poi – va detto che spesso hanno mostrato i sintomi della Sindrome della Parte Terza anche soggetti meno schierati e più equilibrati. Tra questi, l’editorialista del New York Times Thomas Friedman e l’ex ambasciatore Usa in Israele Martin Indyk: il primo con la proposta di schierare truppe Nato nei territori, l’altro con il suggerimento di porre le aree palestinesi sotto una “amministrazione fiduciaria” americana.
Nulla di tutto questo è accaduto, naturalmente. Ma la Sindrome della Parte Terza è un fenomeno che probabilmente non scomparirà mai fino a che non verrà firmato l’ultimissimo accordo di pace fra israeliani e palestinesi: aumenta e diminuisce a seconda degli sviluppi sul terreno fra le due parti. Così ora, mentre si avvicina la conferenza sul Medio Oriente sponsorizzata dagli Stati Uniti per il prossimo novembre, vi sono i segni dell’approssimarsi di un’infezione particolarmente seria.
Stando alle notizie di stampa, i palestinesi intendono chiedere alla conferenza l’intervento di un ente terzo internazionale che sovrintenda all’applicazione di qualunque accordo fra israeliani e palestinesi. Secondo Ha’aretz, tale ente comprenderebbe probabilmente “una forza di osservatori in grado di separare le due parti e dirimere le questioni controverse”. È una formula che suona fin troppo famigliare, destinata probabilmente allo stesso insuccesso delle innumerevoli proposte analoghe del passato. Ma prima di scartarla come nient’altro che l’ennesima manifestazione della Sindrome della Parte Terza, vale la pena esaminare come mai, questa volta, le circostanze sono un po’ diverse e forse anche leggermente meno illusorie.
Innanzitutto c’è da dire che la Sindrome della Parte Terza può contare su basi concrete: sin da quando l’Onu negoziò il primo cessate il fuoco durante la guerra d’indipendenza (1948-49), sia la parte israeliana che quella araba accettarono il principio che intermediari di una parte terza intervenissero o conduccessero i negoziati fra loro. E non è senza precedenti neanche l’idea di schierare sul terreno, in zone delicate, degli osservatori internazionali, anche armati. Particolarmente rilevante il caso delle Forze e Osservatori Multinazionali nel Sinai dopo gli Accordi di Camp David (1979), e quello delle truppe UNIFIL nel Libano meridionale rafforzato nell’agosto 2006 dalle Forze Europee in Libano.
Tutte queste forze, tuttavia, sono dislocate al di fuori dei confini sovrani di Israele, che è il motivo per cui hanno ottenuto il beneplacito di Gerusalemme. I governi israeliani hanno quasi sempre rifiutato, invece, la proposta di porre una analoga presenza di una parte terza all’interno di Cisgiordania e Gaza, per ragioni sia politiche che pratiche. Esiste la legittima preoccupazione che “internazionalizzare” sul terreno il conflitto israelo-palestinese finisca decisamente per favorire la parte araba, soprattutto se vi fosse coinvolto personale dell’Onu, dei paesi arabi o praticamente di chiunque altro che non siano gli Stati Uniti. E sicuramente l’ultima cosa che vuole Gerusalemme è ritrovarsi con forze esterne nel bel mezzo del fuoco incrociato durante le operazioni anti-terrorismo delle Forze di Difesa israeliane.
Vi sono tuttavia due eccezioni, e cioè i controllori europei dislocati al valico di Rafah fra striscia di Gaza ed Egitto dopo il disimpegno israeliano, che secondo Israele si sono dimostrati assai inefficaci nel controllare quella posizione, e la Presenza Internazionale Temporanea a Hebron, considerata praticamente da tutti come poco più che decorativa dal momento che venne istituita per calmare le acque dopo la strage commessa da Baruch Goldstein nel 1994. Come minimo, si tratta di due precedenti non molto promettenti.
Certamente oggi una presenza straniera nei territori non ha molte più probabilità d’essere attuata che in passato, forse anzi ne ha meno date le difficoltà americane in Iraq. Ma talune circostanze rendono plausibile che il governo Olmert possa dimostrarsi più disponibile di quanto siano stati i suoi predecessori rispetto a una più ampia presenza terza in Cisgiordania, che si tratti di osservatori, controllori e qualche altro nuovo appellativo.
Prima di tutto, i rapporti fra Israele a Autorità Palestinese sotto il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e il primo ministro Salaam Fayad sono più saldi di quanto non siano mai stati durante il regno di Yasser Arafat. In secondo luogo, la nomina di Tony Blair a inviato del Quartetto per il Medio Oriente ha messo in campo un interlocutore internazionale nel quale Gerusalemme ripone più fiducia che in tutti mediatori precedenti, e si può supporre che Blair giocherebbe un ruolo in questa presenza di una parte terza assai più accettabile per Israele di quello dei tipici funzionari Onu o UE che di solito ricoprono questo genere di incarico.
Ma ancora più importante è il fatto puro e semplice che qualcosa di concreto deve pur venir fuori dalla imminente conferenza di novembre: ne hanno politicamente bisogno i governi Olmert, Abu Mazen e Bush. Istituire la presenza di una parte terza, sebbene ponga seri problemi a Gerusalemme – anche alla luce dell’atteggiamento militante del movimento dei coloni – sarebbe il genere di concessione che il primo ministro Ehud Olmert potrebbe fare senza temere troppi danni all’interno.
Naturalmente tutto questo potrebbe non accadere affatto, e la conferenza stessa restare un progetto a rischio. Ma, man mano che si avvicina, mettiamo in conto di assistere a sempre più frequenti espressioni della Sindrome della Parte Terza, che questa volta potrebbe apparire meno un’illusione e più una profezia.

(Da: Jerusalem Post, 2.10.07)