La strada sbagliata

Le concessioni unilaterali non portano alla pace

Da un articolo di Uzi Arad

image_1643Nel momento in cui sentiamo il primo ministro israeliano Ehud Olmert che prevede ottimisticamente una pace entro un breve lasso di tempo, dobbiamo aspettarci ulteriori prove di flessibilità diplomatica da parte di Israele.
Le due formule diplomatiche che vennero respinte da Ariel Sharon quando era primo ministro – l’iniziativa saudita e l’iniziativa di Ginevra – vengono oggi rinnovate da Ehud Olmert e Tzipi Livni. Se verranno adottate varie clausole contenute in quelle iniziative, esse andranno ad aggiungersi a tutta una serie di concessioni, ritiri e flessibilità da parte israeliana che hanno caratterizzato quest’ultimo decennio, quasi tutte assunte unilateralmente senza ottenere praticamente alcun vantaggio.
Nell’estate 2000 l’allora primo ministro israeliano Ehud Barak cercò per la prima volta di porre fine al conflitto una volta per tutte. Le concessioni che presentò a Camp David andavano ben oltre qualunque cosa Israele fosse disposto a cedere in precedenza, violando quelle che allora venivano chiamate “linee rosse”.
Yasser Arafat respinse quelle proposte senza prendersi nemmeno la briga di presentare delle proposte alternative. Poche settimane dopo i palestinesi lanciarono l’intifada. Alla fine di quell’anno, nel disperato tentativo pre-elettorale di Taba il governo Barak propose ulteriori concessioni che andavano persino oltre quelle offerte a Camp David. Invano.
Nonostante il cambio di governo e le crescenti violenze palestinesi, le posizioni di principio d’Israele continuarono ad erodersi. Nel discorso di Latroun del 2003 Sharon affermò che lo stato palestinese è uno stato “de facto”. La sua dichiarazione aprì la strada alla Road Map del Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu), che prevedeva altri tre anni per arrivare a un accordo di pace e l’istituzione di uno stato palestinese ancor prima di arrivare all’accordo definitivo, senza alcuna parallela compensazione (come, ad esempio, un impegno ad esercitare il ritorno dei profughi solo nelle aree sotto governo palestinese). Sharon ignorò questi svantaggi preferendo sottolineare il fatto che la prima fase della Road Map prevedeva che i palestinesi smantellassero le loro strutture terroristiche. E così strappò l’approvazione del suo governo.
Pochi mesi dopo Sharon andò oltre la Road Map lanciando l’iniziativa del “disimpegno” dalla striscia di Gaza, che comportava nuove concessioni: smantellamento degli insediamenti e ritiro completo sulle linee del 1967 prima di arrivare a un accordo sullo status definitivo, e senza ricevere nulla in cambio. Pressato dall’opposizione, Sharon riuscì solo a ottenere dagli americani alcuni impegni relativi all’accordo futuro sullo status definitivo: il riconoscimento americano che Israele ha diritto a confini difendibili, l’inclusione futura di alcuni grossi blocchi di insediamenti sotto sovranità israeliana, una dichiarazione secondo la quale i profughi palestinesi non entreranno in territorio israeliano.
Quando il “disimpegno” fu completato, i suoi architetti, compresi Olmert e Livni, ne annunciarono uno simile in Cisgiordania nel quadro di una politica di “riallineamento”. La debolezza di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), l’ascesa al potere di Hamas e la seconda guerra in Libano hanno fatto slittare il piano, e ci si poteva attendere che se ne traesse qualche insegnamento. Ora invece sembra che la tendenza verso le concessioni senza contraccambio prosegua.
Dopo il “disimpegno”, lo smantellamento delle strutture terroristiche sembra non essere più una precondizione per colloqui diplomatici: Israele sta gradualmente accettando un governo di unità nazionale palestinese che comprende Hamas, e si dimostra disposto ad avviare colloqui sull’“orizzonte politico”, cioè sui termini dello status definitivo. Anche il rilancio dell’iniziativa saudita, la cui richiesta chiave è il ritiro su tutte le linee del 1967, rappresenta l’abbandono di un concetto assodato dai tempi del presidente Ford fino a quelli di George W. Bush.
Come è potuto accadere che, mentre arabi e palestinesi si tengono ben strette le loro armi e aumentano persino le loro rivendicazioni, Israele passa da un’iniziativa all’altra abbandonando principi e posizioni considerate cruciali solo fino a ieri.
Vi sono diverse spiegazioni. Secondo la visione di sinistra, ad esempio, le richieste palestinesi sono fondamentalmente giuste, l’occupazione israeliana è la madre di tutti i peccati, e dunque ogni concessione o ritiro è una benedizione.
Un’altra posizione è quella ammaliata dalla riconciliazione: è la convinzione che soggetti aggressivi e prepotenti possano essere placati cedendo alle loro pretese.
Esiste anche il distacco dalla realtà: ignorare i dati di fatto e la situazione, abbandonandosi ai propri pii desideri.
E poi sono stati fatti errori per debolezza e sventatezza.
Un altro errore diffuso nasce dall’ignoranza delle regole del negoziato, e in primo luogo da una interpretazione sbagliata dell’errore insito nelle mosse unilaterali: non esistono pasti gratis, e non esistono concessioni gratis.
Infine, e questo non dovrebbe essere nascosto, da Taba fino al “disimpegno” e forse fino ad oggi, la vana pratica delle concessioni è stata attuata anche per il mero scopo di sopravvivere politicamente.
Una serie di concessioni a valanga potrà mai soddisfare i palestinesi al punto da spingerli a porre fine al conflitto e smetterla di avanzare altre rivendicazioni? Difficile credere che questo accada, perché storicamente più Israele ha moderato le sue richieste, più i palestinesi hanno reso intransigenti le loro. E poi non accadrà perché le concessioni non sono state condizionate a concessioni reciproche, ed anche perché i palestinesi non hanno permesso la chiusura in nessun precedente tentativo.
Le posizioni dell’attuale governo palestinese sono simili a quelle che prevalevano fra i palestinesi prima di Oslo, mentre a poco poco emergono segni che indicano le rivendicazioni dei palestinesi israeliani, che vanno ad aggiungersi a quelle dei palestinesi esterni: tutto questo non fa presagire la fine del conflitto quanto piuttosto la fine dello stato ebraico. E questa non è la strada che porta alla pace.

(Da: YnetNews, 4.04.07)

Nella foto in alto: Uzi Arad, autore di questo articolo