La triste sorte dei musulmani moderati

In particolarmente di quelli che osano propugnare la coesistenza con Israele.

Di Elliot Jager

image_3101Almeno a prima vista, le recenti rivolte in Medio Oriente sembravano rimandare un segnale rassicurante agli osservatori occidentali: non solo esistono musulmani autenticamente moderati, e non solo questi sono stati capaci di dotarsi di una voce politica; ma si può anche sperare che, dando loro il tempo di organizzarsi, possano riuscire a prevalere contro le voci della repressione e dell’estremismo islamista. Con il dispiegarsi degli eventi, tuttavia, l’iniziale ottimismo è andato sfumando. C’è ancora motivo di speranza, ma è chiaro che la battaglia sarà lunga e difficile. E poi bisogna tener conto degli insegnamenti della storia e dell’esperienza contemporanea.
Uno di questi insegnamenti, assai amaro, riguarda la sorte toccata a fin troppi pensatori liberi nel mondo arabo e islamico. Anche lasciando da parte le stragi di massa perpetrate da attentatori suicidi musulmani contro i loro fratelli musulmani – ormai orribilmente di routine in Iraq, Pakistan e Afghanistan – un impatto non meno devastante sulla realtà politica lo hanno avuto gli omicidi mirati intesi a spegnere le voci moderate.
La lista di tali assassinii è lunga, e i bersagli comprendono un gran numero di personalità in posizioni influenti. La vittima più recente che viene in mente è Salman Taseer, il cosmopolita governatore della provincia del Punjab, in Pakistan, la cui uccisione lo scorso gennaio è stata la più clamorosa dopo quella dell’ex premier Benazir Bhutto nel 2007 (dopo Taseer, ai primi di marzo lo stesso destino è toccato a un altro politico pakistano moderato, il cristiano Shahbaz Batti).
Fra i capi di stato musulmani ammazzati, si ricorda re Abdullah di Giordania, ucciso nel 1951 davanti alla moschea al-Aqsa di Gerusalemme, per il sospetto che fosse disposto a fare la pace con Israele; e il presidente egiziano Anwar Sadat, assassinato nel 1981 per averla fatta effettivamente. Il presidente algerino Muhammad Boudiaf venne assassinato nel 1992 da una guardia del corpo islamista, mentre il primo ministro libanese, il sunnita Rafik Hariri, venne ucciso in un attentato esplosivo nel 2005, molto verosimilmente dai terroristi sciiti Hezbollah (il presidente libanese Bashir Gemayel, cristiano, era stato assassinato nel 1982 per aver incontrato l’allora premier israeliano Menachem Begin). Anche Tehran vanta una lunga storia sanguinosa di leader moderati eliminati, come l’ex premier Shapour Bakhtiar nel 1991.
Particolarmente esposti, come si vede dall’elenco, sono coloro che propugnano la coesistenza con Israele, e i più esposti di tutti sono i palestinesi tendenti in questo senso. Storicamente, la dirigenza della società palestinese era divisa fra i fanatici, guidati dall’allora muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, e i relativamente moderati, fra i cui ranghi si annoveravano eminenti famiglie di notabili come i Nashashibi. I moderati erano giunti alla conclusione, più o meno a malincuore, che i sionisti non potevano essere sconfitti e che anzi la coesistenza con loro fosse nell’interesse dei palestinesi. Ma già negli anni ’20 e ’30 era in pieno corso lo sforzo di radicalizzare i leader di villaggio e istigare alla violenza contro i “collaborazionisti”. La vicenda, raccontata dallo storico Hillel Cohen in “Army of Shadows”, culminò in una sequela di violenze omicide che, al momento in cui venne proclamato lo stato d’Israele nel 1948, avevano ormai decapitato la dirigenza moderata mietendo la vita di centinaia di palestinesi.
Lo schema si protrasse anche dopo il 1948. Venticinque anni fa Zafer al-Masri, 44enne sindaco di Nablus (Cisgiordania), veniva assassinato sulla porta del municipio per il sospetto che egli, noto per i suoi stretti legami con la Giordania, stesse progettando di negoziare con Israele sotto gli auspici di Amman.
La stessa cultura politica intransigente che considera ogni contatto con Israele un atto di tradimento passibile di pena di morte sommaria è quella da cui sono stati generati non solo Fatah e Hamas, ma anche i funzionari supposti moderati che gestiscono oggi la Cisgiordania. Uno di questi è Saeb Erekat, una delle figure più accomodanti nella gerarchia dell’Olp. Parlando in privato, Erekat ha garantito ai diplomatici occidentali che i palestinesi sono pronti al compromesso sulla questione dei profughi. In pubblico, invece, Erekat ha continuato ad insistere sul “diritto al ritorno” di “sette milioni” di profughi e loro discendenti. Quale che sia la motivazione di questa sua doppiezza, il risultato netto è che le masse restano del tutto impreparate al compromesso, vale a dire impreparate alla pace.
La carneficina coerente e sistematica dei veri moderati, anziché indurre i commentatori occidentali ad esitare li ha spinti ad abbassare sempre più la definizione di “moderato”. Solo in base a un parametro capovolto si può definire moderato un irremovibile come Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che ormai da due anni boicotta i negoziati con Israele.
I veri moderati, che osano prendere posizione contro la loro esistenza da giungla nelle terre arabe, spesso finiscono con scoprire che la loro vita è condannata ad essere non solo isolata, misera, brutta e brutale, ma anche tragicamente breve.

(Da: Jerusalem Post, 27.3.11)