La verità sulla pace (e i suoi ostacoli)

Inutile riproporre piani che non colgono la radice del problema

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_1455Dopo la visita a Washington del primo ministro israeliano Ehud Olmert e l’abbozzo di una “nuova” iniziativa di pace italo-franco-spagnola, crescono le pressioni su Israele e Stati Uniti affinché colmino il vuoto diplomatico seguito al collasso politico del piano israeliano di convergenza (degli insediamenti a ridosso dell’ex linea armistiziale).
Il vuoto, tuttavia, non può essere colmato semplicemente riproponendo politiche che già non sono state in grado di riempirlo, e cioè la Road Map del Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) e l’opzione israeliane dei ritiri unilaterali. Entrambe queste politiche sono giunte a un punto morto, o peggio, perché ignorano quelle che sono le vere radici del problema. Entrambe si basano sul presupposto che l’ostacolo alla pace stia nella assenza di uno stato palestinese. Ma la verità è che l’ostacolo a uno stato palestinese – e alla pace fra arabi e israeliani – sta nel rifiuto arabo di spartire la terra, e dunque di riconoscere il diritto da esistere dello stato di Israele.
Almeno dal 2000, da quando Ehud Barak lo offrì a Yasser Arafat su un piatto d’argento, è chiaro a tutti che i palestinesi potrebbero avere uno stato su quasi tutta la Cisgiordania e su tutta la striscia di Gaza nel momento stesso in cui decidessero di accettarlo. La battaglia non verte sui pezzetti residui di territori. La battaglia verte su qualcosa di assai è più fondamentale, e cioè se i palestinesi e il resto del mondo arabo sono disposti o meno ad abbandonare il loro sogno di distruggere Israele in quanto tale.
Lo scorso fine settimana il portavoce di Hamas Ismail Radwan ha dichiarato alla stampa: “Ve lo garantisco, l’occupante [leggi: Israele] non durerà a lungo. La storia lo dimostra. Continueremo a combatterlo fino al ritorno nelle case di Palestina da cui siamo stati espulsi nel 1948”.
Non si può liquidare questa posizione come una stravaganza degli estremisti. Primo, perché Hamas non è un gruppuscolo bensì il partito al potere. E poi perché lo stesso Mahmoud Abbas (Abu Mazen), come documenta Yigal Carmon, fondatore del Middle East Media and Research Institute (MEMRI), è molto intransigente e preciso quando si tratta di “diritto al ritorno”, sostenendo che tre milioni di palestinesi devono poter “tornare” in Israele.
Oggi nel mondo arabo e musulmano vi sono “estremisti” che invocano esplicitamente la distruzione di Israele e sostengono il terrorismo come mezzo per conseguirla. Ma non esiste un significativo campo della pace che vi si opponga sostenendo che Israele ha diritto ad esistere, o almeno un campo pragmatico che sostenga apertamente la pace in nome dell’interesse degli stessi arabi.
In questa atmosfera non è possibile nessun processo di pace degno di questo nome, e qualunque piano americano, israeliano o europeo che si ostini a offrire uno stato palestinese a coloro che quello stato non vogliono è destinato a non servire a nulla, e anzi ad incoraggiare l’intransigenza araba.
In questo quadro, anche il governo di Gerusalemme ha il dovere di dire la verità, senza trastullarsi con miti pericolosi. Certo che Israele deve avere un piano di pace, e cioè: che gli occidentali desiderosi di pace esigano dagli arabi che la smettano di fare guerra a Israele.
Palestinesi e stati arabi proclamano spesso di essere pronti a fare la pace. Ma lo schema è ben noto: Israele desidera la pace ma diffida dei “piani di pace”; gli arabi aggrediscono e si preparano alla guerra, e intanto proclamano di abbracciare la “pace”.
È tempo che Israele chieda agli Stati Uniti di scoprire il bluff arabo. Se i leader arabi vogliono davvero la pace, devono aiutare i palestinesi a uscire da questa loro impasse suicida facendo tre mosse esemplari: 1) incontrare i leader israeliani a Gerusalemme e nello loro rispettive capitali; 2) chiedere ai palestinesi di abbandonare il sogno del presunto “ritorno”, a milioni, dentro Israele; 3) iniziare ad integrare i “profughi” palestinesi anziché continuare a usarli come pedine contro Israele. Oltre a questo, si dovrebbe anche chiedere agli stati arabi di fermare le campagne di istigazione all’odio anti-ebraico e di cessare il sostegno a gruppi come Hamas e Hezbolah.
È chiaro che, se facesse propria questa politica, Israele non potrebbe persuadere facilmente gli Stati Uniti, per non dire dell’Europa, ad adottarla. Tuttavia, se non è disposto Israele a dire come stanno le cose e a sostenere i propri interessi, chi mai lo farà al suo posto?

(Da: Jerusalem Post, 19.11.06)

Nell’immagine in alto: Israele non esiste nelle mappe delle rivendicazioni palestinesi