La voce dei coraggiosi

Sono le voci coraggiose dei palestinesi che lamentano le occasioni perdute, quelle che danno un po' di speranza.

Di Alexander Yakobson

image_442“E’ il benvenuto, se ne sentiva la mancanza. E’ stato un leader coraggioso, che ha spezzato dei tabù sulla strada della riconciliazione”. Queste le parole con cui esponente palestinese Jibril Rajoub in un’intervista a Kol Ha’ir (5.11.04) ha commentato il ritorno alla politica attiva dell’ex primo ministro israeliano Ehud Barak. Si tratta probabilmente del commento più favorevole pubblicato sulla stampa israeliana circa il ritorno di Barak.
Naturalmente Rajoub non è un’autorità in fatto di giudizi su Barak come politico. Tuttavia la sua dichiarazione solleva una domanda: se davvero nell’anno 2000 il primo ministro Barak era un leader coraggioso che ha spezzato dei tabù sulla strada della riconciliazione, come mai è finita con una guerra terribile anziché con la pace?
È stato chiesto a Rajoub se questa intifada fosse veramente necessaria, e lui ha risposto: “Ho delle riserve su quanto è accaduto. È un peccato che le cose siano andate come sono andate. Lo dissi anche ad Arafat”. Rajoub non vuole entrare nel merito delle sue critiche, ma non è difficile indovinarne il succo. Rajoub non si limita a criticare la “intifada militarizzata”, cosa che fa anche Mahmoud Abbas (Abu Mazen). La sua critica fa riferimento alle proposte che vennero avanzate ai palestinesi nel 2000.
Negli anni scorsi si sono sentite diverse voci palestinesi che hanno criticato Arafat per aver mancato l’occasione di fare la pace: per esempio, con il suo rifiuto dei “parametri di Clinton”, una versione dell’offerta di Camp David ulteriormente migliorata, dal punto di vista palestinese, che Clinton avanzò nelle ultime settimane del suo mandato.
Personalmente ebbi occasione di udire l’opinione di Sufian Abu Zaida, un alto funzionario dell’Autorità Palestinese che era stato presente al vertice di Camp David del luglio 2000. Lo incontrammo poche settimane dopo il vertice, ma prima che scoppiasse l’intifada, durante un tour di Gaza organizzato dal Council for Peace and Security. Le sue parole erano piene di ottimismo. “Oggi – disse – sono assolutamente convinto che stiamo andando verso la pace. Prima di Camp David non ero così ottimista. Ma oggi le posizioni delle due parti sono così vicine, le restanti differenze sono così piccole e marginali rispetto agli enormi progressi fatti a Camp David – spiegò, avvicinando pollice e indice fin quasi a toccarsi – che è semplicemente impossibile che le due parti non le risolvano. Non è poi così grave se a Camp David non abbiamo risolto tutto. La cosa che conta è che i negoziati sono ripresi, le parti continuano a parlarsi cercando di risolvere le controversie, e sono sicuro che presto arriveremo a un accordo”.
Queste parole vennero pronunciate alla vigilia dello scoppio dell’intifada. Da allora abbiamo udito innumerevoli volte ripetere, anche da parte di israeliani, che in realtà Barak a Camp David non aveva offerto un vero stato palestinese indipendente e funzionante, e che qualunque palestinese con un minimo di dignità avrebbe rifiutato quell’offerta (sebbene non mancassero membri della delegazione palestinese che invece avevano reagito favorevolmente alle proposte di compromesso avanzate da Clinton e accettate da Barak alla fine del vertice). E abbiamo udito innumerevoli volte che i palestinesi hanno fatto ricorso alla violenza solo dopo che avevano perso ogni speranza di ottenere l’indipendenza con mezzi pacifici.
Ogni volta che sento queste cose ripenso al pollice e all’indice di Sufian Abu Zaida che quasi si toccavano, a mostrare quanto si fosse vicini alla pace.
Gli israeliani che cercano di giustificare il comportamento di Arafat a Camp David e nei mesi successivi probabilmente credono, in questo modo, di mantenere viva presso l’opinione pubblica israeliana un po’ di speranza nelle possibilità di pace. Ma è un grosso errore. Prima di tutto perché dobbiamo dire la verità, a noi stessi e al pubblico israeliano. In secondo luogo, perché il tentativo di assolvere Arafat non ha alcuna possibilità di successo.
Sono le voci coraggiose dei palestinesi che lamentano le occasioni perdute di ottenere la pace per la loro nazione con mezzi pacifici, quelle che ci fanno sperare che ora, dopo il decesso di Arafat, vi sia qualcuno con cui parlare realmente di come fermare i combattimenti e arrivare a una composizione politica.

(Da: Ha’aretz, 18.11.04)

Nella foto in alto: Jibril Rajoub, già capo delle Forze di Sicurezza Preventiva palestinesi in Cisgiordania, poi consigliere per la sicurezza nazionale dell’Autorità Palestinese.