L’apartheid immaginario degli anti-israeliani

Gli ebrei di qualunque nazionalità non possono recarsi a Nablus, ma questa evidentemente non è una discriminazione.

Di Liat Collins

image_3290Una delle notizie più curiose della scorsa settimana è quella del cosiddetto “autobus della pace” su cui sei attivisti palestinesi hanno cercato di resuscitare il ricordo dei “freedom riders” (passeggeri per la libertà) del movimento americano per i diritti civili degli anni ’60 (coadiuvati naturalmente, in questo caso, dall’indispensabile corredo di accessori del mondo del 2011: riprese dal vivo su YouTube e petizioni su Facebook). Sono sicura che parecchie persone di buon cuore (e molte anime pie) sono state prese per il naso da quest’ennesima trovata. I sei dimostranti erano seguiti da una folla di circa cinquanta giornalisti e reporter sicché, quand’anche non avessero goduto di un buon viaggio, possono comunque dire d’aver raggiunto il loro scopo propagandistico. Gridando slogan non particolarmente fantasiosi circa l’apartheid, i manifestanti intendevano sottolineare il fatto che loro non possono viaggiare tranquillamente da Ramallah (nell’Autorità Palestinese) a Gerusalemme (in Israele) se non sono muniti degli appositi permessi o, in alternativa, di carta d’identità israeliana. Gli ebrei, naturalmente, qualunque documento d’identità abbiano in tasca, non possono assolutamente viaggiare su un autobus di proprietà palestinese per recarsi a Nablus (o Sichem, come è conosciuta in ebraico sin da quando comparve sulle mappe in tempi biblici). Ma questa evidentemente non viene considerata una discriminazione.
Curiosamente, furono proprio i miei frequenti viaggi in autobus da studente dell’Università di Gerusalemme che mi portarono ad apprendere l’arabo. Quando viaggiavo verso nord per trascorrere il Sabato con la mia famiglia, spesso avvicinandomi alla mia città in Galilea mi accorgevo di essere l’unica ebrea a bordo dell’autobus. Trovavo sgradevole non capire le conversazioni che avvenivano attorno a me e dunque decisi di imparare abbastanza arabo da poter cogliere il succo di ciò che veniva detto. Un paio di corsi d’arabo di base furono sufficienti per permettermi di scoprire ciò che probabilmente avrei dovuto sapere sin dall’inizio: che per lo più i miei compagni di viaggio conversavano di argomenti assolutamente ordinari come gli stipendi, i figli e dello stesso servizio di autobus. Lo stesso genere di preoccupazioni, ora che ci penso, che hanno alimentato le proteste sociali della scorsa estate in Israele.
Ma il mio modesto arabo mi è tornato utile in tutta una serie di altre occasioni. In arabo ho chiacchierato con la donna con cui ho condiviso la camera d’ospedale, e in arabo ho salutato i medici che mi hanno curata. In arabo ho conversato con visitatori e membri del personale in vari musei e allo zoo. Solo una settimana fa, ho usato il mio arabo per aiutare un bimbetto che si era perso in uno shopping center e non trovava più la sua famiglia. Come apartheid, davvero qualcosa di molto amabile.
I passeggeri d’autobus, in Israele, hanno in effetti un sacco di problemi, non ultima la necessità di tenere sempre desta l’attenzione sulla sicurezza. I passeggeri, ebrei e arabi allo stesso modo, controllano meccanicamente tutti i sedili alla ricerca di eventuali oggetti sospetti: gli attentati esplosivi contro gli autobus israeliani che hanno accompagnato tutto il processo di pace non hanno mai fatto distinzioni fra vittima e vittima. Gli slogan su “Israele come stato da apartheid” mi danno francamente molto più fastidio delle lunghe file che bisogna sopportare per i controlli di sicurezza all’entrata di centri commerciali, ospedali, cinema e stazioni di autobus e treni: tutti luoghi che sono stati presi di mira da quelli che cercano tutto tranne la pace.
La scorsa settimana abbiamo avuto un’ulteriore occasione per ricordarci quanto questo genere di accuse vengano allegramente fatte circolare senza nessuna considerazione della realtà dei fatti. Israele non può certo essere fiero del fatto che un suo presidente sia stato giudicato colpevole di aggressione sessuale, e tuttavia la cosa serve a confermare il principio secondo cui tutti gli uomini (e le donne) sono uguali di fronte alla legge. Ebbene, i giudici che hanno giudicato colpevole Moshe Katsav potrebbero bocciare senza difficoltà e senza mezzi termini l’accusa a Israele di praticare l’apartheid: la corte di tre giudici che ha processato e giudicato colpevole in prima istanza Katsav e la giuria di tre giudici della Corte Suprema che ha respinto il suo ricorso, per combinazione comprendevano entrambe un giudice arabo-cristiano e due giudici donna. In quale altro paese del Medio Oriente un membro di una comunità di minoranza e due donne si troverebbero nella posizione di emettere un verdetto a carico del presidente dello stato, e un’altra corte con la stessa composizione di confermare quel verdetto? Eppure è Israele, e solo Israele, che viene costantemente accusato e condanno per reato di apartheid.
Siamo una potenza “occupante” soverchiamente occupata a difendersi da attentati suicidi e lanci di razzi. Da nessun altro paese ci si aspetterebbe che incassasse in silenzio continui attacchi di razzi sulla testa di un milione di suoi cittadini in tempi di guerra; figuriamoci in quelli che vengono fatti passare come tempi di pace (o di processo di pace). In quale altro paese “in pace” ospedali, scuole e asili sono costretti a battersi per destinare fondi alla costruzione di rifugi anti-missile?
Non c’è da meravigliarsi se poi la gente qui è un po’ confusa su ciò che muove i cosiddetti manifestanti per la pace. La “flottiglia”, che poi era una “combattiglia”, ora l’“autobusiglia”: ci si chiede dove si andrà a parare. C’è da dubitare che questa gente ci stia davvero conducendo sulla strada per la pace e la giustizia.

(Da: Jerusalem Post, 19.11.11)

Nella foto in alto: Liat Collins, autrice di questo articolo