Le elezioni del consenso nazionale

La visione condivisa dal grande centro israeliano apre la strada a un governo di unità nazionale

di Barry Rubin

image_2405Molti non capiscono bene cosa stia accadendo quaggiù in Israele, e allora ecco qui un’analisi sintetica e imparziale.
Rispetto al passato, oggi ci sono di gran lunga minori differenze fra i tre maggiori partiti israeliani. Cosa dovuta in larga misura alla situazione oggettiva, che si presenta con scarsi margini di flessibilità.
È molto facile etichettare alcuni come destri fanatici che gettano via ogni possibilità di pace e altri come fanatici di sinistra pronti a gettare via tutto in nome della pace, ma si tratta di raffigurazioni sbagliate, salvo le frange estremiste. Sarei tentato di aggiungere che, all’estero, la sinistra pensa che siamo cattivi mentre la destra pensa che siamo stupidi. Ebbene, tutto questo ha poco a che fare con la realtà.
Il leitmotiv, nei mass-media internazionali, è dire che gli israeliani si stanno spostando a destra, anche questa una lettura fuorviante e fallace. Il vero movimento è verso il centro, rappresentato non solo da Kadima e Likud ma anche dal partito laburista. Una maggioranza del paese, più ampia che mai nella sua storia, si appresta a votare per partiti vicini alle posizioni di centro.
Il mantra della sinistra è la pace, sebbene sia difficile capire come si possa arrivare alla pace con l’Iran, la Siria, Hamas e Hezbollah. La situazione dell’Autorità Palestinese è più complessa. Per dirla in breve: non controlla la striscia di Gaza, è ancora piena zeppa di estremisti e ha una dirigenza debolissima. L’Autorità Palestinese è ben lontana dal poter fare la pace su basi realistiche. Tutti ne sono perfettamente consapevoli, fra i dirigenti dell’Autorità Palestinese e di Israele. Pochi, invece, sembrano capirlo nei mass-media e nelle accademie occidentali. Molti governi comprendono la situazione in privato, ma parlano in modo diverso in pubblico.
Il mantra della destra è la vittoria, sebbene sia altrettanto difficile capire come Israele possa determinare cambiamenti di regime in Iran e in Siria o distruggere Hamas e Hezbollah. Su questi obiettivi Israele ha poco o addirittura nessun sostegno internazionale.
Quali sono le lezioni dell’esperienza dell’ultimo decennio che hanno contribuito a plasmare il pensiero dell’elettorato israeliano?
Abbiamo scoperto che palestinesi e siriani non vogliono e/o non possono fare la pace. Abbiamo constatato che Fatah è piena di estremisti, e che la sua dirigenza è troppo debole e al contempo ancora troppo intransigente per arrivare a un accordo di pace complessivo. Abbiamo visto l’ascesa di Hamas, un gruppo votato alla guerra permanente, e la sua presa del potere a Gaza per poi usare il territorio da cui ci siamo ritirati come base per i suoi attacchi.
Abbiamo sperimentato il perdurante odio del mondo arabo e musulmano, ben poco attenuato dalle nostre concessioni. Abbiamo osservato la crescita dell’Iran come potenza regionale, potenzialmente nucleare, esplicitamente votata alla nostra estinzione.
Abbiamo visto il resto del mondo non concederci nulla in cambio dei nostri ritiri e della nostra disponibilità ad assumerci dei rischi. Anzi, più ci ritiriamo (dal Libano, da Gaza, dalla Cisgiordania settentrionale), più alto e diffuso diventa il livello degli attacchi, delle calunnie, dell’ostilità.
Come risultato di tutto questo, si è formato in Israele una sorta di tacito consenso nazionale intorno ad alcuni concetti.
– Israele vuole la pace e farà autentiche concessioni per una vera pace stabile e duratura, e per la soluzione basata sul principio “due popoli-due stati”.
– Pochi pensano che la dirigenza “moderata” palestinese – Autorità Palestinese e Fatah – sia disposta e/o capace di arrivare a un tale accordo ancora per decenni. Lo stesso vale per la Siria.
– Di conseguenza, qualunque mutamento concreto su Gerusalemme, Golan e insediamenti in Cisgiordania è di là da venire.
– Non c’è valido accordo che possa essere fatto con Hamas; d’altra parte Hamas non è destinata a scomparire dalla scena. Lo stesso vale per Hezbollah.
– Il punto chiave rimane quello di garantire la difesa di Israele e dei suoi cittadini in modo che possano condurre una vita normale.
– L’Iran costituisce un’autentica minaccia e quando starà per dotarsi di armi nucleari bisognerà prendere una difficile decisione sull’eventualità di attaccare quegli impianti.
Questo consenso nazionale, sostanzialmente condiviso da laburisti, Likud e Kadima insieme a parecchi altri, apre la strada alla formazione di un governo di unità nazionale. Chiunque diventerà primo ministro, farà bene a tirare dentro uno e entrambi gli altri due maggiori partiti.
E quale sarà la politica del consenso nazionale del prossimo governo?
– Ribadire che vogliamo la pace, che siamo pronti a convivere con uno stato palestinese e che non siamo responsabili della continuazione delle violenze e del conflitto.
– Preservare la nostra deterrenza e continuare a difenderci.
– Preservare al meglio possibile le relazioni con gli Stati Uniti, l’Europa e altri paesi, finché non comportano rischi per i nostri interessi nazionali e per i nostri cittadini.
– Cooperazione sulla sicurezza con l’Autorità Palestinese nel prevenire attentati terroristici in cambio di aiuto economico e della garanzia che Hamas non prenda il controllo anche in Cisgiordania. Senza illusioni riguardo a Fatah e all’Autorità Palestinese, questo sforzo sembra funzionare.
– Decidere quando e come reagire agli attacchi contro di noi di Hamas ed eventualmente di Hezbollah. La risposta precisa dipenderà da fattori come il momento, l’opportunità e il loro comportamento.
– Adoperarsi per isolare Iran, Hezbollah e Hamas.
Dove sono le differenze fra i maggiori partiti? Sono più d’immagine che reali: offrire qualche concessione secondaria, avanzare qualche richiesta minore. Se il grosso delle elezioni ruota intorno alle personalità è perché le loro strategie e le loro politiche non sono poi così differenti. Benjamin Netanyahu non lancerà una campagna per la costruzione di nuovi insediamenti, Tzipi Livni non cederà gratis Gerusalemme est.
Ed è un fatto positivo che, per quanti difetti possano avere, i tre leader hanno fondamentalmente l’atteggiamento corretto di fronte alla situazione.

(Da: Jerusalem Post, 10.02.09)