Le incognite del dopo Arafat

Senza istituzioni funzionanti né un successore, il dopo-Arafat potrebbe essere il caos.

di Barry Rubin

image_423La grave malattia di Yasser Arafat minaccia di rimuovere dalla scena l’uomo che ha dominato – o addirittura forgiato – la causa palestinese, che ha plasmato il conflitto arabo-israeliano e che ha bloccato il raggiungimento di una sua soluzione pacifica per quasi mezzo secolo. La sua uscita di scena avrebbe enormi conseguenze sul Medio Oriente e anche oltre.
La politica e le tattiche di Arafat sono sempre state inestricabilmente intrecciate fra loro. Sin dall’esordio nella vita politica, nel 1948, il suo obiettivo è stato quello di cancellare Israele e creare al suo posto uno stato arabo palestinese. Fondamentalmente Arafat non ha mai abbandonato questo obiettivo, anche se per un certo periodo negli anni ’90 è sembrato disposto a posticiparlo un po’.
Il suo ricorso costante al terrorismo, metodo di cui è stato uno dei pionieri dagli anni ’60 fino ai nostri giorni, scaturiva dalla convinzione che la violenza terroristica avrebbe provocato il collasso della società israeliana e gli avrebbe guadagnato favori fra la sua gente, senza danneggiare più di tanto il suo sforzo di ottenere sostegno a livello internazionale.
Arafat ha avuto successo nell’edificare il suo movimento. Saltando da una capitale araba all’altra, ha saputo garantirsi abbastanza appoggi da sopravvivere. Allo stesso modo, ha saputo tenere assieme una coalizione piuttosto lasca di gruppi e fazioni palestinesi, proponendosi come il simbolo di tutti senza mai cercare veramente di imporre un vero controllo sui rivali minori. Quello che ne è risultato è un mix del tutto particolare.
Da un lato Arafat ha ottenuto spettacolari successi nel creare e mantenere in funzione l’Olp. Ha secondato la più duratura campagna terroristica di tutta la storia moderna. Nel 1993, firmando gli accordi di Oslo, ha persino convinto quasi tutti che era pronto a un compromesso di pace. Ed è tornato in patria come capo di quell’Autorità Palestinese che sembrava sul punto di generare il futuro stato palestinese indipendente.
Dall’altro lato, nello stesso tempo, Arafat rappresenta un totale fallimento: ha aggravato e aumentato le sofferenze della sua gente, mentre mancava un’occasione dopo l’altra. Come governatore su due milioni di palestinesi nei territori, ha creato una situazione di caos. Nel 2000, a Camp David e col piano Clinton, ha gettato al vento due autentiche opportunità di ottenere uno stato indipendente e di porre fine all’occupazione israeliana. Arafat è invece tornato a fare la guerra, sempre convinto che la violenza gli avrebbe permesso di raggiungere i suoi obiettivi. Il risultato sono stati quattro anni di spargimento di sangue e la morte perfettamente evitabile di diverse migliaia di persone.
Mentre molti, in Europa e altrove, continuavano ad essere suggestionati dalla sua indubbia abilità nelle pubbliche relazioni e dalla sua eterna immagine di rivoluzionario, Arafat toccava il fondo un’altra volta. Israele e Stati Uniti si rifiutavano di parlare ancora con lui, frustrati dai rapporti che avevano cercato di costruire col raìs palestinese e dalla sua abitudine di non mantenere impegni e promesse. Persino in Europa le critiche ad Arafat raggiungevano livelli mai visti prima. Nel mondo arabo, poi, pur mancando quasi del tutto critiche pubbliche, in privato non v’era quasi nessuna figura politica o intellettuale che fosse disposta a spendere una buona parola per lui. Anche fra i palestinesi la sua popolarità aveva toccato il punto più basso, sebbene fra loro vigesse una sorta di unanime consenso sul fatto che non vi fosse nessun altro leader possibile al di fuori di Arafat.
Qual è dunque il lascito di Arafat? Non avendo voluto creare istituzioni funzionanti né nominare un successore per così tanto tempo, il dopo-Arafat potrebbe essere il caos. Paradossalmente la sua malattia più grave sopraggiunge proprio quando l’imminente ritiro israeliano dalla striscia di Gaza gli offriva un’altra occasione per dimostrare la sua serietà nell’impegno di governare, fermare la violenza e fare la pace. Tutti i segnali lasciano pensare, tuttavia, che Arafat fosse avviato a intrallazzare anche con quest’ultima chance.
Il movimento palestinese è e resta un insieme di leader e organizzazioni separate e spesso in lotta fra loro. La sua stessa struttura è una ricetta per la frammentazione. Oltre ai due campi, nazionalista e islamista, altre potenziali linee di frattura dividono i palestinesi sia all’interno che all’esterno dei territori di Cisgiordania e Gaza.
Arafat siede su ogni poltrona importante e dovrebbe essere sostituito su ognuna di esse, anche se non necessariamente da una sola persona. Come capo dell’Olp, si pone alla guida dei palestinesi in tutto il mondo. C capo dell’Autorità Palestinese dovrebbe governare i territori. Come capo della fazione più grande, il Fatah, è il leader di un’organizzazione armata rivoluzionaria.
La questione principale dunque non è chi, bensì che cosa rimpiazzerà Arafat. Il paradosso è che, mentre Arafat era l’uomo che rifiutava di fare la pace con Israele, il vuoto lasciato da Arafat non è detto che renda le cose più semplici. Qualunque nomina ufficiale sarà fatta per rimpiazzarlo, ci vorrà molto tempo prima che chiunque possa esercitare un reale potere come leader dei palestinesi.
Senza nessuno chiaramente al comando, ed anzi con pretendenti rivali che cercheranno di superarsi a vicenda accrescendo la propria legittimazione attraverso operazioni armate, la decisione cruciale di fare la pace verrà verosimilmente rimandata. Allo stesso modo, per molto tempo non emergerà nessuno la cui autorità o i cui comportamenti saranno tali da convincere gli israeliani a fare concessioni o ad assumersi dei rischi, soprattutto alla luce di cosa è scaturito dalle concessioni fatte e dai rischi assunti negli anni ’90.
Non basta. Dal momento che vi sono così tanti signori della guerra locali, ciascuno con la sua propria milizia armata, è assai improbabile che possano prevalere disciplina e coordinamento. Questo non significa che vi sarà una guerra civile (i gruppi palestinesi sono tradizionalmente restii dal combattersi l’un l’altro su vasta scala). Ma è assai probabile che l’ordine civile sarà ridotto al minimo. In questo quadro, è improbabile che prevalga il gruppo islamista jihadista Hamas. Tuttavia, dal momento che alcuni gruppi nazionalisti vorranno allearsi con gli islamisti per guadagnare potere, Hamas potrebbe acquisire una sorta di potere di veto che a sua volta renderebbe ancora più ardua la via della moderazione e del compromesso.
A rendere le cose peggiori, l’Iran e vari stati arabi si sentiranno liberi di appoggiare il leader locale di loro scelta, nel tentativo di accrescere la propria influenza, non facendo altro che accrescere divisioni e confusione. Già oggi gli Hezbollah libanesi, sostenuti da Siria e Iran, stanno guadagnando il controllo su molte cellule terroriste nei territori.
Ecco dunque l’amara ironia della carriera di Arafat. Egli ha condotto il suo popolo alla soglia di uno stato indipendente, e poi gli ha impedito di ottenerlo. La domanda ora è se la sua lunga ombra continuerà a impedirlo anche dopo la sua uscita di scena.

(Barry Rubin, direttore Middle East Review of International Affairs, 28.10.04)