Le piccole cose, su cui si basa la felicità

A proposito del libro di Benny Barbash, "Il mio primo Sony"

Di Claudia Rosenzweig

image_873Benny Barbash, Il mio primo Sony, trad. di Rosanella Volponi, Giuntina, Firenze 2005, pp. 309, 15 euro.

Il mio primo Sony è l’unico libro di Benny Barbash finora tradotto in Italia. Barbash è considerato un autore della nuova generazione, ma questo suo romanzo potrebbe ben essere posto accanto al più famoso Inventario, di Ya‘akob Shabtay (apparso in traduzione italiana nel 1994). L’influsso di quest’opera è ben presente nel romanzo di Barbash. Eppure Il mio primo Sony sembra il contrario dell’epopea distruttiva di Tel Aviv narrata in Inventario, dove il passato segnato da dolori e perdite si scioglie in un presente svuotato di ogni senso e di ogni valore. In Il mio primo Sony punto di osservazione è quello di un ragazzino, Yotam (il romanzo è narrato in prima persona), e il suo è un personaggio decisamente positivo. Egli è ossessionato dal bisogno di registrare le conversazioni e i rumori della vita intorno a lui. E attraverso di lui e il suo registratore parlano tutti gli altri, ciascuno con la propria voce: la madre di origine argentina, impegnata nel movimento di sinistra Shalom akhshav (Pace adesso), il padre scrittore di teatro, ghost writer di storie di ebrei sopravvissuti allo sterminio e inguaribile seduttore, il nonno entusiasta di Jabotinsky e della sue idee politiche, una nonna che è riuscita ad uscire da Auschwitz ma che non si è mai lasciata sfuggire nessun ricordo.
È difficile offrire una trama esatta del libro, dove tutto è raccontato per associazioni e passaggi avanti e indietro nel tempo, e vi sono delle parti che sembrano dei brevi racconti nel racconto, come le testimonianze dei sopravvissuti di cui il padre di Yotam, Asi, probabilmente sorta di alter-ego dell’Autore, scrive le storie:

«Ognuna di loro aveva il suo modo di raccontare la sua storia. C’era Sonia Kravitz di Grodno, che, per due anni, aveva vissuto nascosta in una buca in un porcile. […] O quando diceva al babbo: faccia attenzione! Per due anni abbiamo vissuto in ziemianki. […] Scavi una buca nel terreno fino a una profondità di due metri, la copri con delle assi. Ci getti della terra sopra. Le copri e la mimetizzi con del materiale circostante. Per due anni abbiamo vissuto in quel modo sottoterra. Era dura? Per gli ebrei nei campi è stata molto più dura. […] Si rende conto di come tutto il nostro mondo era capovolto? Ora voglio che si capisce bene: tutta la nostra vita era costruita su degli opposti. Giorno / notte. Pericolo che si avvicina / pericolo che si allontana. Tedeschi in zona / tedeschi assenti. Fare i nostri bisogni nei vasi da notte / farli sulle rive del fiume. Dobbiamo stare zitti / possiamo parlare. […] Che sia ben chiaro! Cinque persone, una buca due metri per due, ventiquattro ore al giorno, per due anni.» (pp. 145-146)

Non stupisce che questo libro sia stato inserito nella cosiddetta ‘letteratura della seconda generazione’, dei figli dei sopravvissuti (cfr. IRIS MILNER, A Testimony to “the War After”; Remembrance and its Discontent in Second Generation Literature, in “Israel Studies”, vol. 8 (2003), n. 3, pp. 194-213). La tematica non è secondaria nell’economia dell’opera:

«perché questa povera gente, disse una volta il babbo alla mamma, vuole trasferire la sua esperienza in una lingua che non è stata ancora inventata e che probabilmente mai lo sarà, rovistano nel lessico insufficiente e inadeguato a noi disponibile, cercando di trovare la formula che esprimerà compiutamente ciò che hanno passato e, alla fine, l’abisso tra ciò che viene scritto e cosa provano provoca frustrazione e risentimento, e l’intero progetto è destinato a fallire sin dall’inizio, e il prolungato silenzio della nonna è a quanto pare la sola lingua in grado di narrare quella storia e il babbo, che sa come mettere insieme le parole ma non sa dare voce al silenzio, decise di smetterla…». (pp. 150-151)

È forse utile offrire un altro esempio di racconto nel racconto, di registro completamente diverso: la madre di Yotam, Alma, ha un rimedio contro i momenti tragici della vita: il Gran Consiglio del Barbecue,

«che è il nome che il babbo aveva dato agli incontri della mamma con Amalia, Orit e Maya, perché quello che facevano in questi incontri era infilzare il loro ultimo raccolto di testicoli sugli spiedi delle loro lingue e farli cuocere al calore infuocato dei loro fiati. […] e arrivarono immediatamente; Maya con una bottiglia di Tequila, e Amalia con un profiterole e una torta al formaggio, della quale la mamma era ghiotta […] e il cibo ad alto valore calorico era il rimedio di Amalia per le situazioni di emergenza, perché era un fatto arcinoto che il miglior rimedio contro la depressione causata dagli uomini era la depressione causata dall’eccesso di peso, e la seconda superava di gran lunga la prima […] e Orit […] salì e scese dalla bilancia un sacco di volte, e il suo volto irradiava contentezza ovunque e, alla fine, disse che era meglio di suo marito, almeno diceva qualcosa quando lei ci si metteva sopra.» (pp. 177-179).

Grazie a questi passaggi attraverso le vicende della famiglia di Yotam, nella maniacale necessità di registare e conservare le parole e tutti i particolari – che ricorda per certi aspetti l’ossessivo e minuzioso impegno di raccolta di ogni particolare dei romanzi di Georges Perec – in attesa di poterne cogliere un senso, magari un futuro, Barbash costruisce un romanzo fluido e armonico. Vi troviamo il ritratto di una famiglia israeliana sospesa tra shoà e impegno politico, narrato con sentimento ed umorismo.
Insieme alla difficoltà di vivere, è la bontà quella che aleggia su tutto il libro: quando il padre di Yotam gli porta un nuovo registratore, dopo avergli rotto il primo, «io gli chiesi: babbo, dove lo hai comprato di notte? E lui mi disse che conosceva qualcuno all’aereoporto che lo aveva lasciato entare nell’area del Duty Free, e io di nuovo: e dove hai preso i soldi? E lui disse che aveva svaligiato una banca e sorrise; sorrisi anch’io, e allora lui mi tirò a sé e mi abbracciò dicendomi che chiedeva ad ogni singolo grammo del mio corpo di perdonarlo, […] alla fine ci addormentammo insieme e, al mattino, mi svegliai prima di lui ma non mi mossi perché non si svegliasse e si alzasse, era così bello sentirlo vicino a me; con molta attenzione presi il nuovo registratore e lo accesi e questa è la prima registrazione che feci: il respiro del babbo […] e piano piano, nel sottofondo, il suono gradevole delle voci della mamma, di Naamà e di Shaul in salotto, che parlano di piccole cose insignificanti, che sono quelle su cui si basa la felicità, come dice la mamma, e, quando la gente parla di queste cose, si può capire che non è morto nessuno, e nessuno è ammalato, e non è scoppiata nessuna guerra; ma quello che il mio registratore non poté registrare, per quanto molto più sensibile e sofisticato del mio primo Sony, fu il battito del mio cuore, che pregava che tutto rimanesse immobile, che niente mutasse…».

Benny Barbash è nato a Beer Sheva nel 1951. Oltre a Il mio primo Sony, pubblicato nel 1994, ha scritto altri romanzi (Hayekitzah hagedolah, del 1982, e Rerun, del 2003), opere teatrali e sceneggiature. Attualmente vive a Tel Aviv.