Leggere la Clinton e la UE a Gerusalemme

La lettera dei 26 ex leader europei spiega bene lo scetticismo d'Israele verso l’Europa.

Di Herb Keinon

image_3008Chiunque ancora si domandi come mai Gerusalemme accolga con favore il coinvolgimento degli Stati Uniti nel processo diplomatico mentre ne terrebbe volentieri fuori l’Unione Europea, per capirne il motivo basta che ascolti il discorso fatto venerdì sera dal segretario di stato Usa Hillary Clinton e lo metta a confronto con la lettera firmata la settimana scorsa da un nutrito gruppo di ex alti rappresentanti della UE.
Il discorso della Clinton è tutt’altro che un panegirico delle politiche del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu o del suo governo. Per la verità, anzi, mentre elogia il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e il primo ministro palestinese Salam Fayyad per i loro sforzi, la Clinton non spende una sola parola a favore di qualcosa che abbia fatto Netanyahu. “Il primo ministro Fayyad – dice – ha fatto un grande lavoro in un breve arco di tempo e in circostanze molto difficili. Insieme al presidente Abu Mazen, ha apportato una forte leadership all’Autorità Palestinese e ha contribuito a far progredire la causa di una soluzione a due stati determinando un vero cambiamento nella vita del popolo palestinese”. Il discorso a tratti rispecchia la propensione americana, spesso esasperante, per il “sacrosanto equilibrio”: se si riconosce un merito a Israele, parallelamente bisogna elogiare nella frase successiva i palestinesi; e quando si attribuisce ai palestinesi qualche colpa, allora nella stessa frase bisogna incolpare di qualcosa anche Israele. Ad esempio, ecco come la Clinton dice che le parti devono dimostrare il loro impegno verso la pace: “si devono evitare atti che pregiudichino il risultato dei negoziati o compromettano gli sforzi fatti in buona fede per risolvere le questioni relative allo status finale: sforzi unilaterali presso le Nazioni Unite non sono d’aiuto e logorano la fiducia, annunci provocatori su Gerusalemme est sono controproducenti, e gli Stati Uniti non esiteranno a dirlo chiaramente”.
Israele ovviamente avrebbe preferito sentire la prima parte della frase, che respinge la minaccia palestinese di perseguire alle Nazioni Unite il riconoscimento della loro indipendenza (senza accordo né compromesso con Israele), senza la seconda parte della frase relativa agli annunci provocatori, evidentemente un riferimento ai recenti progetti israeliani di costruire nuove unità abitative nei quartieri ebraici che si trovano al di là della ex linea armistiziale che divideva la città fra il 1948 e il 1967.
Ma tant’è, è un discorso della Clinton, cioè del segretario di stato americano, non quello di un rappresentante delle associazioni di amicizia Israele-Stati Uniti, e non ci si può aspettare che sia completamente gradito agli israeliani. E tuttavia, c’è in quel discorso una basilare comprensione per le preoccupazioni d’Israele, e delle ragioni da cui scaturiscono. Vi è consapevolezza per la situazione della sicurezza assai difficile in cui Israele si trova, vengono ricordati l’Iran, Hamas e Hezbollah. Vi sono parole sulla necessità di garantire confini sicuri. Sebbene si tratti di un discorso che in nessun modo può essere letto come un’adesione alle posizioni di Israele, si tratta comunque di un discorso che decisamente non si appiattisce su quelle palestinesi: è il discorso del segretario di stato di un paese che è interessato ad apparire come un mediatore onesto e corretto.
Lo stesso non si può certo dire della lettera firmata la scorsa settimana dai 26 “saggi” dell’Unione Europea, alcuni dei quali – come l’ex commissario Chris Patten, l’ex commissario Benita Ferrero-Waldner, l’ex capo della politica estera Jviear Solana e l’ex primo ministro italiano e presidente della Commissione Europea Romano Prodi – hanno ricoperto fino a tempi molto recenti posizioni di grande rilievo nell’Unione Europea e ne hanno influenzato la politica in Medio Oriente. Nelle sette pagine della loro lettera inviata a Catherine Ashton, l’attuale capo della politica estera della UE, alla vigilia dell’incontro dei ministri degli esteri europei a Bruxelles, i firmatari sollecitano, fra le altre misure, delle sanzioni contro Israele sugli insediamenti, e l’impostazione di una data limite per il processo diplomatico che, se non rispettata, comporterebbe che l’intero problema venga demandato alla comunità internazionale perché trovi con una soluzione. Di più. I firmatari della lettera predeterminano anche i risultati dei negoziati dicendo che l’Unione Europea dovrebbe dichiarare che il futuro stato deve sorgere su un territorio “equivalente al 100% dei territori occupati nel 1967, compresa la sua capitale a Gerusalemme est”. Inutile si cercherebbero in questa lettera le parole “Hamas” o “Hezbollah” o “Iran”, perché semplicemente non vi compiano. E sarebbe vano cercare qualunque riferimento al terrorismo palestinese o alle necessità di sicurezza di Israele: se ne uscirebbe a mani vuote.
Leggendo questa lettera si può constatare che Ie 26 autorevoli voci della UE – sebbene oramai non più in carica – in sostanza dicono questo: i palestinesi hanno completamente ragione, Israele ha completamente torto, diciamolo esplicitamente, imponiamo una soluzione e andiamo avanti.
L’attuale leadership della UE non ha sottoscritto la lettera, ed è improbabile che lo faccia nel suo prossimo incontro. Ma quella dei 26 è tutto tranne che una voce isolata, e il loro appello è proprio il genere di cose che rende Gerusalemme così scettica verso l’Europa e – al confronto –soddisfatta della Clinton, anche se le dichiarazioni di quest’ultima sono tutt’altro che un chiaro sostegno alle posizioni di Israele. Ma quello che fa, in ogni caso, il discorso della Clinton è prendere perlomeno in considerazione le ragioni di Israele, cosa che manca completamente nelle raccomandazioni avanzate dagli ex leader europei.

(Da: Jerusalem Post, 12.12.10)

Nella foto in alto: Romano Prodi nel 2007 a Ramallah