L’errore del nuovo movimento di donne per la pace

Ripetere “c’è un interlocutore” perpetua solo la situazione di stallo a vantaggio delle posizioni intransigenti

Di Ben-Dror Yemini

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

C’è qualcosa di veramente rincuorante nel nuovo movimento Women Wage Peace. Di recente sono riuscite a far partecipare migliaia di donne – israeliane e palestinesi, ebree e musulmane – a una lunga marcia e manifestazione per la pace. In generale, dobbiamo accogliere con favore qualsiasi movimento che si adoperi per far progredire la riconciliazione e la comprensione reciproca, così come si dovrebbe condannare qualsiasi movimento che, al contrario, agisce nel senso di aumentare l’ostilità nei confronti di Israele e l’intransigenza palestinese, dipingendo Israele come un criminale.

Ciò detto, ho tuttavia qualcosa da dire loro. Il nuovo movimento in sostanza non fa che ripetere lo slogan trito e ritrito “c’è un interlocutore”. Questa affermazione, in realtà, avalla la posizione della destra. Infatti, se c’è un interlocutore, allora dovrebbero tenersi negoziati per arrivare a un accordo di pace. Ma questo è un film che abbiamo già visto e rivisto: abbiamo già negoziato e i palestinesi hanno già rifiutato la concreta proposta di pace dell’allora presidente americano Bill Clinton nel 2001 e, nel 2008, la concreta proposta di pace dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert. Chi pensa che oggi gli interlocutori palestinesi accetterebbero improvvisamente un accordo sulla stessa base di quelli che hanno già rifiutato, nutre evidentemente delle illusioni.

Un momento della marcia-manifestazione per la pace organizzata lo scorso ottobre in Israele da Women Wage Peace

Giusto poche settimane fa, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha messo in chiaro, parlando alle Nazioni Unite, che “il problema sta nella Dichiarazione Balfour” (cioè nel riconoscimento di una sovranità ebraica in una parte della Terra d’Israele). Come non bastasse, ha aggiunto che “ci sono sei milioni di profughi palestinesi che aspettano di ottenere ciò a cui hanno diritto, e cioè di tornare alle loro case” all’interno di Israele. Anche nel 2008, in risposta alla proposta di pace di Olmert, Abu Mazen disse all’allora Segretario di stato Usa Condoleezza Rice che c’erano “quattro milioni di profughi” che dovevano stabilirsi in Israele. Non esiste alcun precedente storico di un leader nazionale che si batte per l’indipendenza e nello stesso tempo vuole che gran parte del suo popolo vada a stabilirsi dentro un altro stato. Un vero peccato perché Abu Mazen è davvero il leader arabo palestinese più moderato, considerando che i suoi predecessori furono persone come il mufti Amin al-Husseini e Yasser Arafat.

Dunque lo slogan “c’è un interlocutore per fare la pace” impedisce in realtà di fare ciò che si dovrebbe: trovare un modo per separarsi dai palestinesi, conformemente all’interesse di Israele: un modo che eviti sia l’errore del disimpegno unilaterale fatto a Gaza, sia di lasciare che la situazione continui ad andare verso un unico stato, che cesserebbe di essere ebraico e/o democratico.

Dobbiamo mettercelo bene in testa. Estrema destra ed estrema sinistra israeliane un interlocutore ce l’hanno, perché i palestinesi sono sostanzialmente contrari a un accordo del tipo “due stati per due popoli”. In questo sono oggettivamente coalizzati fra loro: quelli che vagheggiano un unico stato ebraico-israeliano e quelli che vagheggiano un unico stato arabo-palestinese. Quelli che non hanno un interlocutore sul versante palestinese sono la sinistra sionista, il centro e la destra moderata israeliana.

Ma non si può aspettare il messia palestinese, che non arriverà mai. Bisogna cercare di promuovere un qualche accordo, foss’anche incompleto o provvisorio. Nel frattempo, continuare a ripetere come un mantra che “un interlocutore c’è” serve solo a perpetuare la situazione di stallo, che favorisce le posizioni estreme e intransigenti.

(Da: YnetNews, 30.10.16)