L’eterna questione dei profughi

I palestinesi sono gli unici profughi in tutto il mondo per i quali è stata creata un’agenzia Onu speciale, separata dall’Alto Commissariato per in Rifugiati.

Di Avi Beker, già direttore generale del World Jewish Congress

image_250Considerazioni di carattere demografico hanno fatto pendere la bilancia del governo israeliano a favore della decisione di appoggiare il piano di disimpegno unilaterale di Ariel Sharon. Analoghe considerazioni demografiche hanno spinto il governo a inserire nella decisione una clausola che dice: “Il governo vede con favore i continui sforzi di organizzazioni umanitarie ed altre agenzie che si occupano dello sviluppo regionale e che aiutano la popolazione palestinese”.
I ministri, e probabilmente anche la maggior parte dell’opinione pubblica israeliana, sono giunti alla conclusione che, se è impossibile mantenere sotto controllo 1,2 milioni di palestinesi risentiti e pigiati nella striscia di Gaza, dunque vanno incoraggiate le organizzazioni di volontariato affinché si assumano la responsabilità di fare sforzi umanitari nella striscia di Gaza. Un lavoro di volontariatio, suggerisce il governo israeliano, che deve continuare fino a quando non verrà creato un apparato ufficiale internazionale che si occupi dello sviluppo economico palestinese.
Ai primi di giugno si sono conclusi a Ginevra i lavori di una conferenza internazionale sull’assistenza ai profughi palestinesi sponsorizzata dall’ UNRWA (Relief and Works Agency), l’agenzia Onu per i profughi palestinesi. Vi hanno preso parte delegati di 67 paesi e 56 enti internazionali. I partecipanti hanno discusso progetti per organizzare le risorse necessarie per assistere milioni di profughi palestinesi. Sebbene molti dei delegati avevano probabilmente davanti agli occhi le immagini delle operazioni delle Forze di Difesa israeliane a Rafah, gli sponsor dell’agenzia Onu hanno fatto uno sforzo comune perché la discussione non venisse deviata su diatribe politiche. L’agenzia ha dichiarato che si è trattato della più grande conferenza di questo tipo organizzata in decenni di attività. I delegati si sono divisi in gruppi di lavoro e hanno affrontato vari temi professionali su sviluppo, gestione delle risorse, attività di assistenza sociale.
Il budget dell’UNRWA nel 2003 è stato di 350 milioni di dollari, un quarto dei quali finanziati dagli Stati Uniti. Il sostegno all’agenzia dall’Europa è diminuito. Gli stati arabi non hanno dato praticamente nulla. Nel frattempo, stando ai dati dell’Onu, dal settembre 2000 si è registrata una drammatica crescita del numero di persone che chiedono assistenza nei territori dell’Autorità Palestinese: la cifra è passata da 130.000 a un milione e 100.000 persone. Anche la proporzione dei profughi che vivono sotto la linea di povertà è aumentata dal 20 al 60%. L’UNRWA oggi definisce i campi profughi come “ghetti urbani sovraffollati” affetti da gravi problemi sanitari, igienici e di povertà.
L’UNRWA è diventata parte integrante della storia palestinese. La sua creazione rispondeva alla strategia araba di usare i campi profughi come un’arma sempre eternamente puntata contro lo stato di Israele. Le stesse dichiarazioni dei capi di stato arabi all’epoca in cui l’agenzia venne istituita confermano questa lettura. E infatti i leader arabi hanno poi approfittato dell’agenzia per impedire qualunque tentativo di costruire una nuova vita per i profughi al di fuori dei campi.
I palestinesi sono gli unici profughi in tutto il mondo per i quali è stata creata un’agenzia Onu speciale, separata dall’Alto Commissariato per in Rifugiati. Su 150 milioni di profughi definiti come tali dalla fine della seconda guerra mondiale, quelli palestinesi sono fra i pochissimi che, dalla creazione di Israele nel 1948 a oggi, hanno mantenuto lo status di profughi.
Dall’inizio nel contenzioso arabo-israeliano, fondamentalmente nella regione si è avuto un grande trasferimento di popolazione: parallelamente ai 650.000 profughi palestinesi, 900.000 ebrei vennero costretti a lasciare le loro case nei paesi arabi per trasferirsi in altri paesi, 650.000 di loro nelle tendopoli in Israele. La grande maggioranza di questi ebrei era stata espulsa a forza con una deliberata politica di “pulizia etnica”. Molti fuggirono in condizioni miserabili, a causa di nuove ondate di antisemitismo e violenza.
L’approccio di Israele è stato tradizionalmente quello di rimandare la questione dei profughi, insieme al problema di Gerusalemme, alla fine del processo di pace. L’idea era che, dopo aver risolto le questioni territoriali e di sicurezza, la questione dei profughi avrebbe trovato una soluzione. Ma questo approccio venne demolito al vertice di Camp David dell’estate 2000: i partecipanti israeliani restarono spiazzati nello scoprire che il cosiddetto diritto dei profughi palestinesi (e dei loro discendenti) al ritorno all’interno di Israele era una delle prime e più importanti rivendicazioni dei palestinesi.
Anche la sinistra israeliana restò sbalordita dall’intransigenza della posizione dei palestinesi su questo punto, tale da mettere potenzialmente a repentaglio l’esistenza stessa dello stato ebraico in un accordo finale. Divenne anche chiaro che i campi dell’UNRWA si erano trasformati in trampolini di lancio del terrorismo, sotto il controllo di estremisti che predicavano che il “diritto al ritorno” dovesse essere perseguito con ogni mezzo disponibile.
La politica di ritiro unilaterale non offre una via plausibile per condurre negoziati sulla questione dei profughi palestinesi. Solo poche settimane fa, parlando in occasione dell’anniversario della “nakba” (catastrofe, cioè la nascita di Israele), Yasser Arafat ha ribadito che l’argomento profughi è cruciale e che i palestinesi non intendono fare compromessi su questo tema. E’ un tema che non è destinato a scomparire nemmeno se Arafat venisse sostituito, destinato a giocare un ruolo centrale in qualunque negoziato futuro.
Dai dibattiti alla conferenza dell’agenzia Onu a Ginevra è emerso che le accuse all’amministrazione dei campi profughi e in particolare alla corruzione dell’Autorità Palestinese comportano la necessità di nuovi sistemi di monitoraggio e di gestione. Questo punto di vista è stato adottato oggi anche dagli Stati Uniti, dall’Europa e persino da alcuni ambienti arabi.
L’esperienza del vertice di Camp David dimostra che quando si arriva alla questione dei profughi, Israele deve impegnarsi con uno sforzo creativo. Le mosse unilaterali, in questo caso, non bastano.

(Da Ha’aretz, 13.06.04)

Nella foto in alto: profughi ebrei presso Tel Aviv nel 1948

Vedi anche:
Un negoziato onesto e coraggioso

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