Libera capitale

Guai alla nazione che accettasse di limitare la libertà di espressione proprio nella capitale

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2163La “Jerusalem Pride and Tolerance March for Infinite Love” è in programma a Gerusalemme per giovedì. Partendo dal Parco dell’Indipendenza, i partecipanti sfileranno lungo King David Street fino al Liberty Bell Garden dove terranno un raduno per chiedere eguaglianza di diritti per la comunità LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). Ciò che dalla scorsa settimana sembra differenziare la parata gay pride di quest’anno da quelle precedenti è la decisione a sorpresa da parte di Edah Haredit – l’organizzazione ombrello che raccoglie i gruppi ebraici ultraortodossi – di ignorare l’evento, che loro considerano abominevole, anziché contro-manifestare attivamente. Fonti interne agli ambienti ultra-ortodossi dicono che potranno verificarsi manifestazioni spontanee, ma che non vi sarà nessun appello da parte dei gruppi organizzati inteso ad impedire la sfilata dei LGBT.
La decisione non rappresenta in alcun modo una virata degli ultrarossi verso un atteggiamento di tolleranza rispetto all’omosessualità. Si tratta piuttosto di una mossa tattica basata sul fatto che la parata di quest’anno ha carattere locale, a differenza del “World-Pride” del 2006 che attirò partecipanti da molti altri paesi. Inoltre i leader ultraortodossi hanno avuto un ripensamento sul fatto di esporre gli studenti delle loro scuole religiose alle scene di “depravazione” della manifestazione gay, foss’anche per contestarle.
In ogni caso il direttore della Open House di Gerusalemme Yonatan Gher esprime apprezzamento per la decisione, attribuendola in parte anche ai suoi regolari incontri con i leader della comunità ultraortodossa nel periodo che precedeva la parata: incontri – dice – che sono stati tenuti “allo scopo di raggiungere una migliore comprensione delle questioni e delle sensibilità da entrambe le parti, per contribuire a disinnescare le tensioni e le violenze che hanno accompagnato la sfilata negli anni scorsi, culminate nel 2005 nell’accoltellamento di tre partecipanti da parte di un estremista ultraortodosso”.
Questo dialogo si è tradotto in uno sviluppo assai gradito dalla polizia che vede il proprio lavoro monopolizzato prima e durante tali controversi eventi. (Sin dal primo Gay Pride del 2002, per ben due volte la polizia ha chiesto agli organizzatori LGBT di rinviare o cancellare la prevista manifestazione per ragioni di sicurezza non collegate alla parata stessa, e in entrambe le occasioni la comunità LGBT ha accolto la richiesta: la prima volta fu nel 2005, quando la parata sarebbe caduta in coincidenza con il disimpegno e la polizia doveva essere impegnata nelle opere di sgombero degli insediamenti dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania settentrionale; la seconda volta fu l’anno successivo, con lo scoppio della seconda guerra in Libano contro Hezbollah).
Purtroppo, tuttavia, sembra che la “tregua” non sia stata uniformemente accettata. Imbeccato dai suoi interlocutori estremisti negli Stati Uniti, la scorsa settimana il rabbino Moshe Sternbach, uno dei leader veterani di Edah Haredit, ha respinto la decisione dell’organizzazione di non creare problemi prima e durante la parata, affermando che è invece “doveroso impedire l’abominio”. Sebbene Sternbach rappresenti un settore minoritario ed estremista della comunità ultraortodossa, è a dir poco un peccato che prenda questa posizione, che riapre l’interrogativo su chi debba essere biasimato per l’escalation della tensione.
Si è detto che “Gerusalemme non è Tel Aviv”, e che sbandierare un tema così delicato come la sessualità in generale, e l’omosessualità in particolare, in una città considerata santa da ebrei, cristiani e musulmani in tutto il mondo sarebbe come minimo un gesto insensibile. In effetti, questa è una delle poche questioni su cui musulmani ed ebrei ortodossi si trovano d’accordo, in questa esplosiva regione. È stato suggerito che la comunità LGBT potrebbe riconsiderare quella sua insistenza nel voler esercitare il diritto alla libertà di parola proprio in questo luogo e in questo modo, anche se Gher sostiene che è appunto per un gesto di sensibilità che la sfilata di quest’anno avverrà in una forma molto meno flamboyant che a Tel Aviv, tesa a sottolineare più il tema dei diritti umani che quello della sessualità. Da cui il suo nuovo titolo. Dopodiché, quale che sia il suo titolo, la sostanza dell’evento resta chiaramente offensiva per i suoi oppositori.
Ma qui entra in gioco una questione più grande. Per quanto Gerusalemme possa essere la città del Kotel e del Kolel (del Muro e del seminario rabbinico), della Via Crucis e della moschea di al-Aqsa, essa è anche la capitale vibrante, cosmopolita e internazionale – richiamando residenti e visitatori ai suoi concerti, film, spettacoli, caffè e pub – di una democrazia pluralista, fiera della propria libertà di espressione. Guai a questa, come a qualunque altra società che accettasse di limitare tale libertà.

(Da: Jerusalem Post, 23.06.08)