Lintransigenza ha un prezzo

Se avessero colto loccasione, i palestinesi avrebbero oggi uno stato: certo, non lo stato che avevano sognato, ma sicuramente qualcosa di molto meglio di ciò che oggi si trovano ad affrontare.

Da un editoriale del Jerusalem Post

La dichiarazione fatta la scorsa settimana al quotidiano egiziano Al-Ahram dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush secondo la quale non ci si può più attendere la nascita di uno stato palestinese entro la fine dell’anno prossimo ha suscitato l’ira dei rappresentanti palestinesi.
Dando ulteriore prova del difficile rapporto con la realtà che caratterizza l’Autorità Palestinese, il primo ministro Ahmed Qureia (Abu Ala) ha condannato Bush per aver “sconfessato” la sua Road Map. Naturalmente Abu Ala si è guardato bene dal ricordare che la prima ragion d’essere della Road Map di Bush consisteva nell’ipotesi che l’Autorità Palestinese avrebbe soffocato le violenze palestinesi. E invece l’ establishment palestinese non solo non si è affatto adoperato per porre fine a tre anni e mezzo di terrorismo, ma anzi lo ha approvato, evocato e in molti caso direttamente guidato.
Di fronte a una tale sprezzo per il significato stesso della Road Map, il presidente Bush – che in quella particolare intervista stava solo facendo una valutazione della situazione – come avrebbe potuto esimersi dal concludere che i palestinesi stessi hanno reso impraticabile quel suo piano? Se la Road Map sta tanto a cuore ad Abu Ala, egli dovrebbe dedicarsi a combattere il terrorismo.
In verità, la reazione palestinese alla frase di Bush ci dice molto di più sullo stato della lotta palestinese che sul pensiero di Bush. Una dichiarazione come quella di Abu Ala, prima di tutto rifiuta di assumersi qualunque responsabilità, poi pretende ciò che non può essere ottenuto, e infine porta diritti a perdere ancora una volta un’occasione preziosa per realizzare qualcosa che, pur essendo meno di quanto offerto in precedenza ai palestinesi, sarebbe comunque di più di quanto potrebbe essere plausibilmente offerto loro in futuro.
Il rifiuto dell’Autorità Palestinese di fronteggiare le violenze palestinesi è stato spesso spiegato con la mancanza di mezzi per farlo. Non la pensiamo così. Persino i pochi distinti palestinesi che fino a qualche tempo fa erano disposti a balbettare qualcosa contro i ripetuti attentati che uccidono bambini israeliani insieme ai genitori – come l’assassinio a brucia pelo la scorsa settimana di una donna incinta all’ottavo mese e delle sue quattro bambine – oggi dicono solo che questi atti “non favoriscono la causa palestinese”, come usava dire Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Secondo questo modo di vedere, il deliberato assassinio di israeliani innocenti non è moralmente, ma solo politicamente illegittimo. Se viceversa favorisse la causa palestinese, secondo questo modo di pensare andrebbe benissimo. E se questo è il modo di ragionare dei più moderati, cosa dovremo dire del grosso dell’opinione palestinese, per non parlare degli estremisti?
Con tutta evidenza il fallimento palestinese nell’abbandonare il terrorismo non è dovuto a incapacità, bensì a un rifiuto. E quel rifiuto, a sua volta, sta alla radice del fallimento palestinese nell’ottenere uno stato. Fino a quando palestinesi come Abu Ala continueranno a interrogare la coscienza di tutti tranne la propria? Insistere nell’idea che una certa causa sia così totalmente giusta da giustificare qualunque cosa (compreso il genere di terrorismo che Abu Ala oggi si rifiuta non solo di contrastare, ma anche solo di condannare) va di pari passo con l’altro difetto palestinese: la negazione di qualunque responsabilità per la propria situazione. E’ molto facile dare la colpa agli altri, in questo caso a Bush, per i propri fallimenti. Ma la realtà è che la Road Map, che adesso i palestinesi rimpiangono, è stata affossata dagli stessi palestinesi.
Per un breve momento, nel decennio scorso, la maggior parte degli israeliani si era convinta che la dirigenza palestinese avesse finalmente abbandonato questi atteggiamenti, e avesse imparato ad apprezzare il compromesso politico e il valore della vita umana. Finalmente, si diceva, i palestinesi si sono decisi ad occuparsi concretamente della costruzione di uno loro stato e a coltivare i rapporti con il loro vicino designato, lo stato ebraico.
Se avessero colto l’occasione, i palestinesi avrebbero oggi lo stato offerto loro da Clinton e Barak nell’estate 2000: certo, non lo stato che avevano originariamente sognato, ma sicuramente qualcosa di molto meglio di ciò che oggi si trovano ad affrontare. A ben vedere, dal loro punto di vista il compromesso del 2000 era più vantaggioso dell’attuale piano di disimpegno, anche se era meno vantaggioso del compromesso che i palestinesi, con gli altri arabi, rifiutarono all’indomani della guerra del 1967. Il quale a sua volta era meno vantaggioso del piano di spartizione Onu che i palestinesi rifiutarono nel 1947, che era già meno vantaggioso di quello proposto dalla commissione britannica Peel nel 1937. Quale altro accordo ancora meno vantaggioso intendono lasciare ai palestinesi del futuro i leader palestinesi di oggi come Abu Ala?

(Jerusalem Post, 11.05.04)