L’intransigenza palestinese e le sue radici nell’indisponibilità araba al compromesso

La dirigenza palestinese avrebbe reagito in modo diverso alle parole di Trump se fosse capace di prestare attenzione alle posizioni degli altri e fosse animata dalla reale volontà di arrivare a un accordo

Di Shlomo Avineri

Shlomo Avineri, autore di questo articolo

È chiaro che i palestinesi sono rimasti male quando il presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale d’Israele e vi trasferiranno la loro ambasciata. Ma la reazione ufficiale palestinese riflette ancora una volta la lunga serie di fallimenti che tradizionalmente ha portato i palestinesi a prendere decisioni politicamente catastrofiche.

Mentre gli israeliani celebrano, legittimamente, la decisione di Trump, è impossibile ignorare il fatto che il discorso del presidente Usa comprendeva delle affermazioni che senza dubbio dispiacciono al governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Trump ha detto esplicitamente che riconoscere Gerusalemme, e spostarvi l’ambasciata, non significa in alcun modo determinare i confini e che gli Stati Uniti sostengono la soluzione a due stati, se è accettabile per entrambe le parti. La reazione palestinese ha totalmente ignorato queste due asserzioni, le quali in pratica affermano che, per quanto riguarda l’accordo finale, la posizione dell’amministrazione Trump non è significativamente diversa dalla posizione delle precedenti amministrazioni americane.

Una dirigenza palestinese responsabile, che si battesse davvero per una soluzione concordata e non si accontentasse della retorica aggressiva, avrebbe potuto cogliere al volo queste affermazioni. Ciò che ha impedito ai dirigenti palestinesi di relazionarsi a questi risvolti del discorso di Trump, che a ben vedere erano per loro piuttosto convenienti, è solo l’inveterata riluttanza palestinese a capire che, se una soluzione si deve trovare, essa sarà per forza una formula di compromesso e non l’adempimento di tutte le loro rivendicazioni.

Manifestati palestinesi a Betlemme bruciano l’immagine di Donald Trump

Ci si poteva aspettare una reazione diversa dalla dirigenza palestinese se soltanto fosse capace di prestare attenzione alle posizioni diverse dalle sue. Essa avrebbe potuto elogiare Trump per aver menzionato per la prima volta – sì, per la prima volta – la soluzione a due stati e per aver espresso il suo sostegno a questa formula. Inoltre, dal punto di vista dei palestinesi, era anche possibile applaudire l’affermazione secondo cui il riconoscimento e lo spostamento dell’ambasciata non significano la determinazione dei confini: avrebbero potuto interpretarla come una chiara espressione della disponibilità americana ad accettare la suddivisione di Gerusalemme. Avrebbero anche potuto aggiungere che, in tal caso, Gerusalemme potrebbe essere la capitale di due paesi, Israele e Palestina, e i che palestinesi saranno ben lieti di promuovere la creazione di un’ambasciata americana nel loro stato a Gerusalemme est.

Invece, la dirigenza palestinese ha attaccato gli Stati Uniti e il suo presidente, ha dichiarato che l’America non può essere un mediatore onesto, ha minacciato di boicottare la visita nella regione dal vicepresidente Usa Mike Pence e ha proclamato che il discorso di Trump seppellisce irreversibilmente la soluzione a due stati. Anche il più inesperto dei politici e dei diplomatici sa che la prima cosa da fare in risposta alle dichiarazioni di un soggetto esterno è enfatizzare gli aspetti che sono convenienti, e solo successivamente esprimere disaccordo su quelli che risultano inaccettabili. I palestinesi hanno fatto esattamente il contrario, e così facendo hanno enfatizzato il successo israeliano.

Mercoledì a Gaza manifestanti palestinesi bruciano bandiere Usa e israeliane

Questa reazione, che va ad aggiungersi a una lunga lista di storiche opportunità mancate da parte arabo-palestinese, non è frutto di stupidità o inesperienza. Sembra piuttosto che le sue radici si possano trovare nell’incapacità di concepire il compromesso, che caratterizza il discorso politico arabo in generale. La fede nella assoluta giustezza della propria posizione è ciò che impedì al mondo arabo di accettare il piano di spartizione delle Nazioni Unite nel 1947, ed è ciò che impedì a Yasser Arafat di accogliere l’appello del presidente egiziano Anwar Sadat ad unirsi a lui nella visita a Gerusalemme, dove tenne il suo storico discorso davanti alla Knesset. Si può solo immaginare quanto sarebbe stata diversa la storia se Arafat fosse andato a parlare alla Knesset in quel novembre 1977.

La legittimità morale del sionismo è incastonata nella celebre affermazione di Chaim Weizmann secondo cui il conflitto non è tra giustizia e ingiustizia, ma tra due parti che hanno entrambe giustificate rivendicazioni, e che dunque il compromesso è l’unica soluzione equa possibile.

A volte i palestinesi sostengono d’aver già fatto il loro compromesso e la prova sarebbe la loro disponibilità ad accettare l’esistenza di Israele nelle linee del ‘67. Ma questo, ovviamente, è un imbroglio: le linee del ‘67 non furono il risultato della volontà palestinese di scendere a compromessi, ma del fallito tentativo arabo-palestinese di impedire l’attuazione del piano di spartizione. E’ come l’affermazione di quegli israeliani che sostengono che il compromesso dovrebbe limitarsi alla concessione agli arabi delle terre a est del fiume Giordano. Anche questa è un’assurdità perché quella non fu una concessione sionista, ma il risultato della decisione della Gran Bretagna di non applicare sull’altra sponda del Giordano i principi della Dichiarazione di Balfour incorporati nel Mandato internazionale sulla Palestina.

Per il terzo giorno consecutivo il sistema anti-missilistico israeliano ha intercettato mercoledì razzi palestinesi lanciati da Gaza contro la città di Sderot, i cui abitanti sono tornati nei rifugi. Uno dei razzi lanciati da Gaza è ricaduto in territorio palestinese danneggiando una scuola gestita dall’agenzia Onu UNRWA a Beit Hanoun. Sono 16 i razzi lanciati dai terroristi contro il territorio israeliano nell’ultima settimana, 3 gli israeliani feriti. Le Forze di Difesa israeliane hanno reagito colpendo bersagli di Hamas nella striscia di Gaza

Le concessioni si fanno qui e ora, e su qualcosa di cui si dispone: non si “concede” ciò che non si possiede (arabi e palestinesi non possono “concedere” a Israele il diritto di vivere nelle linee del ’67 dopo che hanno tentato in ogni modo di impedire a Israele di esistere entro quelle linee, senza riuscirci). Un compromesso lo deve accettare Israele, e da qui nasce l’accesissimo dibattito interno alla società israeliana. Un compromesso lo dovranno accettare anche i palestinesi, se e quando sarà possibile arrivare a un accordo in cui entrambe le parti accetteranno compromessi difficili.

Questo rifiuto di scendere a compromessi spiega anche l’incapacità delle società arabe di sviluppare sistemi democratici di governo, i quali per definizione si basano interamente sul compromesso: sulla consapevolezza che esistono più opinioni legittime e che le persone che la pensano diversamente devono essere rispettate. Troppo spesso nel discorso politico arabo chiunque la pensi diversamente viene  per ciò stesso considerato un traditore, un agente straniero o parte di una cospirazione. Questo rende difficile accettare un sistema multipartitico, così come un compromesso tra due movimenti nazionali.

I palestinesi chiedono che Israele rinunci al controllo su Cisgiordania e Gerusalemme est, ma insistono irremovibili che le loro richieste siano accettate per intero (compresa la pretesa di un “diritto al ritorno” di milioni di arabi palestinesi all’interno di Israele), il che non promette nulla di buono per il futuro dei negoziati. Allo stesso modo, l’intransigente reazione palestinese alla dichiarazione di Trump non fa nulla per promuovere un compromesso storico tra i due movimenti nazionali.

(Da: Ha’aretz, 13.12.17)

Un alto funzionario della Casa Bianca ha duramente criticato, mercoledì sera, la recente dichiarazione del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che respinge il ruolo degli Stati Uniti nel processo di pace e minaccia di annullare gli accordi di pace del passato. “Purtroppo non ci sorprende questa retorica palestinese, che da anni impedisce la pace, dal momento che ci aspettavamo reazioni di questo genere” ha detto il funzionario americano, aggiungendo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump “resta impegnato per la pace come sempre” anche dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele della scorsa settimana. “Le parole del presidente sono state distorte – ha continuato funzionario – E’ importante ignorare le distorsioni e concentrarsi invece su ciò che il presidente ha effettivamente affermato la scorsa settimana: i confini specifici della sovranità israeliana a Gerusalemme sono soggetti ai negoziati sullo status finale tra le parti, gli Stati Uniti continuano a non prendere posizione su eventuali problemi relativi allo status finale e sosterrebbero una soluzione a due stati se concordata da entrambe le parti. Noi continueremo a lavorare al nostro piano – ha concluso la fonte dall’amministrazione Usa – confidando di offrire il miglior risultato ad entrambi i popoli, israeliano e palestinese, e non vediamo l’ora di sottoporlo alle parti quando sarà pronto e al momento giusto”.

Dal canto suo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto di non essere affatto “impressionato” dalle dichiarazioni dei leader musulmani che mercoledì, al summit dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica riunito d’urgenza a Istanbul, hanno esortato il mondo a riconoscere Gerusalemme est come capitale della Palestina. “I palestinesi farebbero meglio a riconoscere la realtà dei fatti – ha detto Netanyahu – e ad agire a favore della pace, anziché dell’estremismo. E dovrebbero riconoscere un altro fatto: che a Gerusalemme Israele tutela la libertà di culto per tutte le religioni come non fa nessun altro in tutto il Medio Oriente“. (Da: Times of Israel, 13.12.17)