L’inutile rituale del turismo protestatario

Ogni settimana a Bil'in va in scena la "guerra da turisti" dei “pacifisti” occidentali

Da un articolo di Seth Frantzman

image_2589Le recenti notizie riguardo al fatto che Unione Europea e ambasciate europee in Israele sovvenzionano alcune organizzazioni estremiste israeliane “per i diritti umani” sollevano una questione: fino a che punto il conflitto tra Israele e palestinesi è messo in scena e colonizzato da altri?
Nella protesta che viene inscenata ogni settimana a Bil’in, i palestinesi lanciano pietre ai soldati tentando di irrompere attraverso la barriera di sicurezza (in costruzione fra Cisgiordania e Israele). Ma, come accade puntualmente ogni settimana, c’erano più manifestati stranieri che arabi. E gli stessi arabi che ci vanno non sono della zona. L’evento si presenta come una messinscena, una sorta di sit-com ripetuta come uno stanco rituale: il format è ogni volta lo stesso.
E allora perché continua? I dimostranti non hanno un vero e proprio obiettivo. Sostengono di essere “Anarchici contro il muro” o “attivisti pacifisti”, ma gli eventi a Bil’in non sono affatto pacifici, e non c’è alcuna realistica possibilità che il rituale settimanale possa effettivamente intaccare la barriera difensiva, che in quella zona oltretutto non è nemmeno così tremendo: devia dalla Linea Verde per meno di 2 chilometri e non divide case arabe o cose del genere.
E allora perché continua? Continua perché quelli che arrivano là hanno consolidati interessi a farla andare avanti. Siti web (come Bilin-village.org) consacrati a questa campagna sottolineano che si sono aggiunte molte importanti persone e organizzazioni, compresa l’organizzazione ebraica israeliana “Medici per i diritti umani”, il Movimento di Solidarietà Internazionale (ISM) e Gush Shalom. Si tratta ormai di una tappa obbligata per tutti i “turisti della protesta” di passaggio in Terra Santa. Ed è il posto giusto dove i dimostranti stranieri possono sperare di rimanere eroicamente feriti.
Così è stato nel giugno 2008 per l’allora vice presidente del parlamento europeo Luisa Morgantini e per Giulio Toscano, un giudice italiano. Mairead Corrigan, che ha vinto un Premio Nobel per il suo lavoro nell’Irlanda del nord, si è fatta ferire durante un’identica dimostrazione di protesta nell’aprile 2007. Lymor Goldstein, un avvocato israeliano, è rimasto ferito nel 2006. Queste persone non sono state ferite accidentalmente o perché i soldati intendevano ferirle: sono state ferite perché volevano essere ferite. Hanno scelto di essere ferite per fregiarsene come di un titolo d’onore.
Nessuno personifica il rapporto simbiotico tra protestatari e Bil’in meglio di Jonathan Pollak, un leader degli “Anarchici contro il muro”. Disegnatore grafico cresciuto a Tel Aviv (ora vive a Giaffa), è figlio dell’attore Yossi Pollak e fratello dell’attore Avshalom Pollak e del regista Shai Pollak. Pare sia stato coinvolto in più di trecento dimostrazioni. Come parte del suo lavoro per l’ISM, nel 2005 si è anche fatto un giro negli Stati Uniti per una missione di raccolta fondi.
Questo “turismo della protesta” non ha nulla a che fare con una causa legittima e concreta, quanto piuttosto con un modo di porsi e di vivere. Qui la protesta non è un mezzo rivolto a uno scopo: è essa stessa lo scopo, è fine a se stessa.
Quand’anche il “muro” scomparisse, la protesta dovrebbe comunque continuare perché in essa è stato investito troppo. Si consideri la quantità di denaro che va a finanziare gli stranieri che partecipano alle proteste settimanali di Bil’in. Si considerino i biglietti aerei, la sistemazione negli alberghi e il trasporto da e per il luogo delle dimostrazioni. Si considerino i siti web, le tante organizzazioni e l’attenzione dei mass-media. Quando la scrittrice canadese Naomi Klein visitò Israele, lo scorso giugno, per lanciare la traduzione in ebraico del suo libro “The Shock Doctrine”, non mancò di compiere il dovuto pellegrinaggio a Bil’in dove esternò in questi termini “pacifisti” il suo sostegno al boicottaggio contro Israele: “È parte importante dell’identità d’Israele potersi illudere di godere d’una normalità occidentale. Quando questa normalità è minacciata, quando i concerti rock non si tengono, quando non si tengono le sinfonie, quando un film che vuoi vedere non compare al festival di Gerusalemme, allora incomincia a essere minacciata l’idea stessa di ciò che è lo stato d’Israele”.
Il conflitto israelo-palestinese è molto reale e concreto. Ma c’è una sua dimensione che è puro e semplice intrattenimento per gli occidentali. Un aspetto che è evidente nella copertura sproporzionata che danno New York Times e BBC ad ogni minimo incidente, avvenimento o personaggio, specialmente se si possono esibire un po’ di ulivi sullo sfondo. Le organizzazioni “pacifiste” coinvolte hanno un preciso interesse finanziario e personale nella sua continuazione. Senza il conflitto, non avrebbero più niente da fare. Ecco perché l’attivismo “pacifista” a Bil’in non prende la forma di una protesta pacifica, bensì di lancio di pietre e assalti volti a provocare il tiro di candelotti lacrimogeni e proiettili di gomma, indispensabili affinché queste persone possano sentirsi “in guerra” e sbandierare le loro “ferite”, il tutto davanti alle telecamere.
Non è una pacifica campagna di protesta, è un mettersi in posa semplicemente puerile. Se il conflitto sparisse, le legioni di persone come Pollak e Klein non potrebbero più definirsi “attivisti pacifisti”. Ma la gente non agisce contro il proprio interesse: se il loro lavoro è “la pace”, vivono per il conflitto perché senza il conflitto il lavoro di tutta la loro vita scomparirebbe.
E poi, senza Bil’in dove potrebbero andare europei e americani per farsi una vacanza di turismo protestatario? E perché mai organizzazioni pacifiste di questo genere vengono sovvenzionate dalle ambasciate europee in Israele? Non è forse contrario ai doveri di un’ambasciata immischiarsi così impudentemente negli affari interni del paese ospite?

(Da: Jerusalem Post, 28.07.09)

Nella foto in alto: locandina del documentario “Bilin My Love”, di Shai Pollak