Lo stato di Abu Mazen, fra illusione e incubo

Uno stato palestinese a fianco di Israele sarebbe l’anticamera di un disastro interno palestinese, e i loro capi lo sanno

Di Reuven Berko

Gaza, giugno 2007: palestinesi di Hamas nello studio personale del presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen)

Gaza, giugno 2007: miliziani di Hamas nello studio personale del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), dopo averne cacciato i miliziani di Fatah

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha sicuramente saputo del recente video-messaggio in cui il capo di al-Qaeda, Ayman al-Zawahri, lo definisce “un traditore che sta svendendo la Palestina”, e dev’essere rimasto impietrito.

Ma anche senza quel video, Abu Mazen può facilmente immaginare cosa hanno in serbo per lui i jihadisti islamisti.

La sua minaccia di “rimettere nelle mani di Israele le chiavi dell’Autorità Palestinese” riflette la generale atmosfera di cupa rassegnazione che si respira dalla sue parti.

Fino a poco fa Abu Mazen e i suoi avevano l’impressione di poter sfruttare la pressione esercitata su Israele da Stati Uniti e Unione Europea circa i negoziati di pace. L’illusione di poter ottenere successi gratis era sostenuta dagli allarmi continuamente agitati in Israele circa una “terza intifada”, il “boicottaggio”, lo “stato bi-nazionale”. L’ansia diffusa per le “inevitabili” dimissioni di Abu Mazen, che avrebbero accollato su Israele il caos dei territori palestinesi, ha portato i palestinesi a credere di poter estorcere ulteriori concessioni sulla via verso uno stato palestinese de facto senza dover fare a propria volta delle concessioni che sarebbero viste assai male in campo palestinese, arabo e islamico.

Ma l’ultimo round di colloqui ha portato i palestinesi a un bivio: possono ottenere il loro stato, ma devono dichiarare la fine del conflitto israelo-palestinese e riconoscere Israele come stato nazionale del popolo ebraico: il che segnerebbe la fine delle loro rivendicazioni sul resto del paese, in particolare attraverso il cosiddetto “diritto al ritorno” (cioè all’invasione demografica di Israele). Questo ineluttabile momento della verità ha gettato la furba strategia palestinese in un circolo vizioso. Dal momento che l’Autorità Palestinese non ha alcuna possibilità di “vendere” i concetti di fine del conflitto e di riconoscimento d’Israele come stato ebraico a Hamas, alla Jihad Islamica, ai furibondi discendenti dei profughi e in generale a una popolazione nutrita per generazioni di revanscismo estremista, pur di evitare qualsiasi decisione cruciale Abu Mazen ha optato per una politica a zig-zag e per una serie di scuse e pretesti (come la questione del rilascio dei detenuti, bloccata dalla sua pretesa che Israele scarcerasse anche terroristi arabo-israeliani senza espellerli, cioè tenendoseli in casa a piede libero).

Con l’aiuto degli americani, i palestinesi hanno cominciato poco a poco a capire che Israele non accetterà mai il “ritorno” dei discendenti dei profughi o di qualunque altra massa di persone votate alla sua distruzione. Ma il fatto che i palestinesi dovrebbero accogliere costoro dentro il loro (futuro) stato viene percepito come un disastro esistenziale. Se poi verrà affidato allo stato palestinese il controllo sulla Valle del Giordano e sui valichi di confine con i paesi vicini, la situazione peggiorerà in modo esponenziale, giacché la Palestina verrà inondata di terroristi d’ogni sorta provenienti da Iraq, Siria e Libano. E coloro che vi si installeranno pretenderanno certamente una redistribuzione delle risorse e delle terre, inaugurando una stagione di conflittualità interna potenzialmente infinita. E i miliziani della Jihad approdati da Siria e Iraq vorranno imporre la sharia, la legge islamica, in tutta l’area “liberata”. Una volta che il rais, il presidente, non fosse più al riparo dell’ombrello di Israele, gli islamisti esigerebbero la restituzione del bottino incamerato in tutti questi anni da Fatah, mentre Abu Mazen e i suoi finirebbero probabilmente impiccati nella pubblica piazza. Gli islamisti passerebbero poi a formare un emirato islamico unito con la striscia di Gaza, che vedrebbe la luce sullo sfondo di sanguinose lotte di potere fra gruppi e clan terroristici, il tutto mentre i mujaheddin lancerebbero devastanti attacchi terroristici contro i civili israeliani provocando disastrose contromisure da parte di Israele.

Esponenti di Fatah e Hamas alla firma dell’accordo di mercoledì

Poi, come al solito, verrebbe addossata a Israele la colpa per i massacri fra arabi nei territori palestinesi, come accadde nel 1982 col massacro fra arabi di Sabra e Chatila, in Libano.

Uno stato palestinese a fianco di Israele sarebbe l’anticamera di un disastro interno palestinese, e i capi lo sanno. Dovrebbero rifiutare ai discendenti dei profughi il “diritto al ritorno”, condurre politiche fiscali trasparenti, fare a meno degli enormi aiuti del mondo arabo e occidentale, porre fine alla diffusa corruzione, assumersi la responsabilità effettiva per i propri cittadini giacché non potrebbero più incolpare “l’occupazione” per i loro fallimenti.

C’è da stupirsi se Abu Mazen non vuole davvero uno stato palestinese a fianco di Israele? Ecco perché ha deciso di perseguire ancora una volta l’alleanza con Hamas. Per quanto lo riguarda, la prospettiva di uno stato palestinese a fianco di Israele è, per dirla con il compianto Gabriel García Marquez, la cronaca di una morte annunciata.

(Da: Israel HaYom, 23.4.14)