Lo stato pietoso dell’Autorità Palestinese

Non è solo malgoverno e parassitismo economico: qui c’è in ballo una questione ben più fondamentale.

Editoriale del Jerusalem Post

image_3541Non si sono visti titoli sui giornali quando recentemente il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha ribadito che non vi sarà nessuna pace finché “gli ebrei non saranno sgomberati da Gerusalemme, la nostra città santa ed eterna capitale del nostro stato”. Come ha riportato Palestinian Media Watch, Abu Mazen ha dichiarato all’agenzia di stampa ufficiale palestinese WAFA e al quotidiano Al-Hayat al-Jadida che il proposito di Israele è “conseguire i suoi loschi obiettivi: distruggere la moschea di al-Aqsa, edificare il ‘presunto’ Tempio ebraico, impadronirsi dei luoghi santi musulmani e cristiani e distruggere le istituzioni di Gerusalemme allo scopo di svuotarla, sradicarne gli abitanti e continuare l’opera di occupazione e giudaizzazione”. Sicché, mentre il “partner per la pace” insiste caparbiamente a coprire Israele di contumelie e ad alimentare le fiamme dell’odio con zelo da piromane, Israele lo sostiene economicamente e ne facilita la sopravvivenza politica.
Nei giorni scorsi manifestanti palestinesi sono scesi nelle strade di Ramallah e di altre città dell’Autorità Palestinese per denunciare il carovita e dare sfogo alla rabbia repressa, facendo incidentalmente gli interessi di Hamas. Abu Mazen si produce in acrobazie politiche per dare l’impressione d’essere schierato a fianco della popolazione e contro il sempre più impopolare primo ministro Salam Fayyad. Di recente ha ridotto un po’ di prezzi e di tasse. Si tratta del più classico populismo, e le invettive contro Israele sono il solito stratagemma utilizzato nel mondo arabo per distogliere l’attenzione dai veri guai quotidiani della gente. Israele è per antica tradizione il demonio della società araba a cui attribuire convenientemente ogni male, e questo caso non fa un’eccezione. Ecco perché le proteste sociali palestinesi non risparmiano gli insulti a Israele.
Detto questo, Israele continua a considerare Abu Mazen e gli accoliti di Fatah come il minor male disponibile. Per evitare che Hamas prenda il controllo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha appena autorizzato il versamento di un anticipo di 250 milioni di shekel (più di 49 milioni di euro) delle entrare fiscali che Israele riscuote per conto dell’Autorità Palestinese: una delle varie misure adottate per allentare la pressione sulle vuote casse di Ramallah. Netanyahu si augura che l’Autorità Palestinese riesca a superare le sue attuali difficoltà nella convinzione che si tratti di un interesse comune, pur prendendo atto della crisi globale e delle problematicità della gestione economica di Ramallah.
Ma questo, naturalmente, non è che un piccolo frammento di un quadro ben più ampio. Numerosi sono i fattori che concorrono a fare dell’Autorità Palestinese un caso economico disperato. Il notorio tasso di corruzione ai suoi vertici non è che uno di questi fattori. I lauti fondi elargiti dai benefattori stranieri vengono regolarmente sperperati e non iniziano nemmeno a controbilanciare la cronica incapacità di dare vita a una solida base economica. Ogniqualvolta le cose si mettono male, Ramallah strilla che ha assoluta necessità di maggiori sussidi (col sottinteso ricatto delle sempre possibili “esplosioni di violenza”). Sussidi che, appena elargiti, prontamente scompaiono a loro volta nello scarico senza fondo dell’Autorità Palestinese.
Ovviamente nei periodi in cui gli stessi paesi donatori si trovano in cattive acque, gli aiuti diventano più complicati da ottenere. Di più. L’eterna dipendenza dalla beneficienza straniera (a metà fra la questua e il taglieggiamento) certamente non contribuisce a favorire la costruzione di una sana e vitale economia capace di fare affidamento su se stessa. Il mantra d’obbligo palestinese, sia per l’incompetente dirigenza che per le instabili masse, è dare la colpa a Israele e alla cosiddetta occupazione per tutto il loro irrimediabile caos. Israele, nel suo ruolo di onnipresente babau regionale, rimane il collante arabo universale.
I fatti, tuttavia, smentiscono costantemente la consueta scappatoia palestinese. Israele è in realtà la stampella indispensabile su cui si appoggia l’Autorità Palestinese. Se Israele non puntellasse l’economia che fa capo a Ramallah, le cose laggiù sarebbero incalcolabilmente peggiori. Così, ad esempio, è il contribuente israeliano che paga la bolletta dell’energia elettrica dell’Autorità Palestinese: gli arretrati di Ramallah ammontano a un quarto del deficit della Israel Electric Corporation e l’ammanco ricade sulle spalle di ciascuna famiglia israeliana.
Ma Ramallah non è responsabile soltanto della suo miserabile malgoverno e del suo paratissimo economico. Qui c’è in gioco una questione ben più fondamentale. Il fatto, cioè, che è molto difficile, se non impossibile, che un futuro stato palestinese possa funzionare con un’economia separata e indipendente sia da Israele che dalla Giordania, i due paesi fra cui è incuneato. Pertanto, essendo improbabile che l’Autorità Palestinese si trasformi in un Liechtenstein mediorientale, è assai più plausibile che vada nella direzione di un altro Hamastan.
Non sarebbe sorprendente scoprire che Hamas sobilla attivamente le manifestazioni a Ramallah, esattamente come gli estremisti islamisti hanno fomentato, in altre parti del mondo arabo, quella che viene erroneamente chiamata la “primavera araba”. Meglio tenere gli occhi ben aperti.
(Da: Jerusalem Post, 12.9.12)

DALLE PROTESTE SOCIALI ALLE MANIFESTAZIONI CONTRO ISRAELE
Di Khaled Abu Toameh

Attivisti palestinesi hanno indetto per venerdì manifestazioni di massa in Cisgiordania per chiedere la fine degli accordi di Oslo e di altri trattati firmati con Israele dall’Olp e dall’Autorità Palestinese. L’appello giunge nel momento in cui i lavoratori dei trasporti pubblici e gli attivisti sociali hanno annunciato la sospensione fino a domenica delle proteste contro il carovita. La decisione di sospendere le proteste è stata presa nonostante gli appelli da parte di vari gruppi giovanili a continuare le manifestazioni contro il primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad. Alcuni attivisti hanno detto d’aver subito “pesanti pressioni” da parte dei dirigenti dell’Autorità Palestinese perché sospendessero le proteste che da dieci giorni interessano la Cisgiordania. Secondo questi attivisti, la dirigenza dell’Autorità Palestinese è molto preoccupata che “elementi esterni” possano approfittare delle proteste per sobillare contro il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). I dirigenti dell’Autorità Palestinese sono anche preoccupati che le proteste possano far precipitare la Cisgiordania nell’anarchia e nel caos “a vantaggio dei nemici dei palestinesi”. Le proteste erano inizialmente rivolte contro Fayyad e la politica economica del suo governo, ma negli ultimi giorni i palestinesi hanno iniziato a chiedere anche le dimissioni di Abu Mazen e la cancellazione degli accordi di Oslo. Mercoledì scorso un gruppo anti-corruzione di Cisgiordania ha diffuso un appello a organizzare dimostrazioni di massa per chiedere la fine degli accordi di Oslo. Firmato dai “Comitati di coordinamento della rivoluzione palestinese contro la corruzione e la dipendenza”, il comunicato pubblicato a Ramallah afferma che le manifestazioni si terranno sotto lo slogan: “Il venerdì della dignità nazionale”. Il gruppo chiede anche la cancellazione del Protocollo di Parigi, l’accordo del 1994 che regola i rapporti economici fra Israele e Autorità Palestinese (una richiesta già avanzata domenica scorsa da Hussein al-Sheikh, ministro per gli affari civili dell’Autorità Palestinese, per conto del presidente Abu Mazen).
Nel suo discorso settimanale alla radio, Fayyad ha rinnovato l’appello ai paesi donatori arabi e occidentali perché forniscano all’Autorità Palestinese l’urgente aiuto finanziario di cui ha bisogno per alleviare le sofferenze economiche, a suo dire le peggiori incontrate dall’Autorità Palestinese dalla sua nascita nel 1994.
(Da: Jerusalem Post, 13.9.12)

C’È QUALCHE DUBBIO SU COSA DIVENTEREBBE LO STATO PALESTINESE?
Di Guy Bechor

Gli ultimi due anni dell’amministrazione Obama hanno visto in Medio Oriente la caduta di vecchi regimi nazionali, certamente odiatissimi, e la trasformazione di paesi arabi in nuovi Afghanistan: infestati da milizie, gruppi estremisti armati e gravi violenze, il tutto all’insegna della sacra democrazia. Vi è forse qualche dubbio che, se dovesse nascere uno stato palestinese, diventerebbe una fonte di pericolo vitale per i suoi due vicini, Israele e Giordania? Un altro bastione dell’incrollabile salafismo? C’è qualcuno che non veda cosa sta accadendo nella striscia di Gaza, che sta diventando essa stessa salafita? Ora manca solo che l’amministrazione Obama completi l’opera: sbarazzarsi di Bashar Assad e trasformare la Siria in un nuovo Afghanistan: facile preda di future milizie, bande terroriste armate, anarchia e disperazione”.
(Da: Yediot Aharonot, 13.9.12)

Nella foto in alto: Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen)