Lo strano caso della tracotanza iraniana

Per qualche motivo questo paese apparentemente isolato, stretto fra armate occidentali a est e a ovest, lacerato da sorde divisioni intestine, ritiene tuttavia di dover alzare la posta della sfida

M. Paganoni per Nes n. 9, anno 17 - novembre 2005

image_966I soldati aprono il fuoco a freddo, sghignazzando. In pochi istanti un’intera famiglia è sterminata. Il giovane, miracolosamente sopravvissuto, brama la sacra vendetta, ed entra in un gruppo di eroici resistenti che tuttavia, paterni, cercano di dissuaderlo. Infine accettano di farlo partecipare a un’imboscata contro un convoglio di soldati (notare: non un autobus di civili). Ma lui, il giovane shahid, decide di farsi esplodere direttamente fra i nemici, guadagnandosi rispetto, ammirazione e memoria imperitura.
È solo un breve cartone animato, tanto grossolano da essere quasi ridicolo. Ma il messaggio è preciso, ed è stato trasmesso a fine ottobre dall’emittente iraniana IRIB 3 TV all’ora in cui i bambini guardano la televisione. In quei giorni il resto del mondo stava lentamente rendendosi conto che il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, durante un convegno intitolo “Il mondo senza sionismo” tenuto il 26 ottobre, aveva proprio detto esplicitamente: “Israele deve essere cancellato dalla carta geografica”.
Più tardi sarebbero arrivate le riprovazioni ufficiali, la convocazione dell’ambasciatore iraniano in qualche capitale occidentale, la cancellazione delle visita del segretario generale dell’Onu Kofi Annan prevista per quei giorni a Teheran. Intanto, però, numerosi osservatori, diplomatici e politici di qua e di là dall’Atlantico si sono prodotti nel consueto esercizio di minimizzazione: c’è chi si è affrettato a dire che le parole del neo presidente iraniano servivano soltanto alla lotta politica interna; chi si è ingegnato per leggervi tra le righe messaggi trasversali nel quadro del contenzioso diplomatico fra Iran e occidente; chi ha semplicemente scrollato le spalle declassando come sempre quelle parole a pura retorica senza seguito; e chi si è spinto ad argomentare che, certo, l’ineffabile Ahmadinejad ha un po’ esagerato, ma che insomma, se Israele si comportasse diversamente con i palestinesi… ecc. In realtà la speranza di tanti era che il regime degli ayatollah si prendesse la briga per lo meno di attenuare un poco le sue esternazioni, sì da permettere alla comunità internazionale di continuare a ignorare quali siano i suoi autentici e dichiarati obiettivi.
E invece, ai primi di novembre, la “suprema guida” Ali Khamenehi, colui a cui spetta l’ultima parola su ogni decisione secondo la costituzione khomeinista, ha sottoscritto e ribadito le parole di Ahmadinejad. L’Iran, ha detto Khamenehi parlando alla chiusura del Ramadan, respinge la formula “due popoli-due stati” come soluzione della questione palestinese, e si batte piuttosto per un solo stato su tutta la Palestina storica: uno stato il cui potere sia saldamente in mano ai musulmani, anche se sarà consentito a qualche ebreo e a qualche cristiano di rimanervi, secondo criteri non meglio specificati. Per dare maggior concretezza al progetto, Khamenehi ha suggerito di affidare le sorti della questione a un “referendum nazionale a cui partecipino soltanto gli autentici palestinesi, compresi i profughi in tutto il mondo”. In ogni caso, ha precisato, tutti i leader politici e militari israeliani, a cominciare dall’attuale primo ministro Ariel Sharon, dovranno essere processati per crimini contro l’umanità.
Per qualche motivo, dunque, questo paese apparentemente isolato, stretto fra armate occidentali a est e a ovest, lacerato da sorde divisioni politiche e sociali intestine, ritiene tuttavia di dover alzare la posta della sfida, esplicitando e ribadendo pubblicamente il senso autentico della sua strategia anti-israeliana. Follie dell’ideologia fondamentalista?
Forse no, spiega Amir Taheri, il noto giornalista iraniano, in un articolo sul Jerusalem Post (11.11.05). Il punto è che Teheran non si sente poi così debole e isolata. Per almeno venticinque anni la Repubblica Islamica khomeinista ha cercato di modificare gli assetti geo-politici del Medio Oriente, mentre gli Stati Uniti si adoperavano per preservarli. Oggi il George W. Bush post-11 settembre, abbattendo il regime talebano in Afghanistan e quello ba’athista in Iraq, ha trasformato gli Stati Uniti nel principale fattore di cambiamento di quegli assetti. Presto o tardi nella regione dovrà stabilizzarsi un nuovo status quo. La partita è tutta aperta e Ahmadinejad non intende perdere l’occasione, contando soprattutto sulle maggiori capacità di tenuta sul medio periodo del suo regime rispetto a quelle dell’amministrazione Usa. Gli basta aspettare che la presidenza Bush giunga a termine: nessun successore si azzarderà ad incrementare l’impegno americano in Medio Oriente anziché diminuirlo. Tanto meno a combattere direttamente l’Iran.
Nel frattempo, spiega ancora Taheri, le potenze regionali rivali di Teheran sono in tutt’altre faccende affaccendate: la Turchia è protesa verso l’Europa, l’Egitto si avvia rapidamente verso un periodo di difficile transizione al vertice. In Iran, viceversa, si è stabilizzata al potere una generazione di estremisti islamisti relativamente giovani, che hanno messo nell’angolo i “riformatori pragmatici” e che possono contare sugli ampi margini di manovra offerti dai floridi proventi petroliferi.
Mentre gli Stati Uniti se la devono vedere con i “repubblichini” iracheni e coi ritorni ciclici dei Talebani in Afghanistan, l’Iran ha consolidato forti alleanze in entrambi questi paesi, ha riallacciato rapporti con gli sciiti nel Golfo Persico e persino con l’opposizione sciita saudita in esilio, si è imposto come il maggiore supporter dei gruppi armati palestinesi dopo la caduta di Saddam, e si appresta ad ospitare, il prossimo febbraio, la più grande convention di leader estremisti da tutto il mondo musulmano a sostegno della formula “Una sola Palestina islamica”. La Siria, isolata e sbigottita, dipendente sempre di più dall’appoggio dell’Iran che, via Hezbollah, si conferma uno degli attori principali anche sulla scena libanese.
L’Iran può inoltre contare sull’appoggio di Cina e Russia. Affamata di energia, la Cina ha bisogno dell’Iran che detiene la terza più importante riserva di petrolio mondiale e la seconda di gas. Mosca, a sua volta, ha bisogno di Teheran per almeno due motivi: per controbilanciare l’influenza americana nel bacino del Caspio e dell’Asia centrale, e per prevenire disordini nelle comunità musulmane di Russia. L’Iran, infine, non esclude di ridare vita al moribondo movimento dei paesi non-allineati, questa volta in versione “no global”, con l’eventuale contributo di nuovi soci come il presidente venezuelano Hugo Chavez.
È in questo quadro che si inserisce la corsa agli armamenti, anche nucleari, che Teheran continua a incrementare. Non è più un segreto che la dirigenza iraniana conta di conseguire un arsenale atomico entro tre-cinque anni.
Non c’è dunque da stupirsi, conclude Taheri, se i mass-media iraniani presentano sistematicamente Stati Uniti e occidente come “potenze al tramonto” contrapposte alla “nuova alba” di una potenza islamica guidata dall’Iran. In quest’ottica, la distruzione di Israele diventa un obiettivo necessario. La dirigenza iraniana sa che, se vuole affermarsi alla testa di tutti gli estremisti jihadisti mediorientali al di là delle divisioni fra sciiti e sunniti, deve promettere innanzitutto la cancellazione di Israele dalla mappa geografica. Spetta a tutti coloro che si oppongono alla strategia jihadista, dentro e fuori il mondo islamico, dimostrare che quel disegno è destinato al fallimento.

Nella foto in alto: il prediente iraniano Mahmoud Ahmadinejad durante il suo celebre discorso al convegno “il mondo senza sionismo”, Teheran, 26 ottobre 2005.