L’obiettivo sporco della stampa sottomessa

Per Hamas e per gli altri terroristi lo “spettacolo” della morte è comunque vincente

Di Pierre Rehov

Il tweet postato da Gabriele Barbati dopo essere uscito da Gaza

Il tweet postato da Gabriele Barbati dopo essere uscito da Gaza

Per i terroristi la morte di bambini innocenti è irrilevante. In una società che esalta il martirio come il più nobile degli obiettivi, la morte degli innocenti può essere vista come una manna nei rapporti con l’opinione pubblica.
“L’intero conflitto – mi dice il giornalista straniero seduto al caffè – è uno spettacolo da prima serata: i palestinesi ci forniscono la parte romantica della storia”. Il terrorismo è uno show, con i suoi produttori e i suoi distributori. Senza una certa connivenza dei mass-media internazionali, il terrorismo non sarebbe così efficace e potrebbe addirittura scomparire. Mentre Hamas fa piovere razzi e missili sulla popolazione civile in Israele e in cambio subisce grandi distruzioni e centinaia di morti come “danni collaterali”, bisogna chiedersi: a che scopo? La stessa domanda vale per il terrorismo suicida. Il vero obiettivo sembra quello di suscitare simpatie (in certi ambienti) e terrorizzare il nemico, raggiungendo gli spettatori su una quantità innumerevole di canali multimediali.
In questo genere di “spettacolo” le vittime, sia israeliane che arabe, giocano sempre a favore della stessa parte: quella che conta di guadagnare più simpatia verso le vittime. Di solito si tratta di Hamas e delle altre organizzazioni terroristiche. In questa puntata si tratta per lo più di islamici palestinesi, finanziati dall’Iran e da altri paesi con grosse entrate petrolifere. Se un razzo dovesse bucare la difesa israeliana e causare gravi danni in Israele, Hamas si vanterebbe d’essere tanto forte da colpire lo stato ebraico. Se la reazione di Israele causa tristemente la morte di civili arabi, Hamas “esibisce” la “disumanità” di Israele dimostra che Israele merita l’indignata condanna del mondo. Per Hamas e per gruppi simili lo “spettacolo” della morte è comunque vincente.
Come mai la lente sporca dell’obbiettivo funziona sempre a favore della stessa parte? Lasciamo stare l’antisemitismo, anche se è evidente che gioca un ruolo in questa equazione. La realtà è che i terroristi, o attivisti, o combattenti palestinesi o comunque li si voglia chiamare, hanno imparato da tempo qual è il punto debole delle democrazie. Nelle società in cui la divisione dei poteri è la chiave della libertà, la libertà di parola è un solido contro-potere che può svelare la corruzione, denunciare una politica, rimodellare il sistema. I mass-media sono i veri leader del mondo libero. […]
In realtà, secondo un semplice ed elementare principio dell’etica e della giustizia, in ogni azione lo scopo, l’intento, fa grandissima differenza. Non sono moralmente equivalenti l’uccisione deliberata dei civili e una controffensiva che tragicamente comporta perdite civili. Ma di fronte all’obiettivo ogni distinguo scompare. Il cadavere di un bambino coperto di sangue è il culmine dello spettacolo (e nessuno si farà domande su come si sia arrivati a tanto). Non c’è da stupirsi che Hamas chieda alla popolazione di Gaza di rimanere nelle case, mentre Israele chiede ai civili di scappare dai luoghi che saranno bombardati. E’ facile immaginare i capi di Hamas che dirigono lo spettacolo nascosti nelle scuole, nelle moschee, negli ospedali, nei tunnel, mentre commentano gli ultimi sviluppi: “più sangue, ci serve più sangue!”.

La stessa foto, postata su social netwokr in arabo. A sinistra: vittime in Siria. A destra: vittime a Gaza

La stessa foto, postata su social netwokr in arabo. A sinistra: vittime in Siria. A destra: vittime a Gaza

I mass-media e i social network che si professano filo-palestinesi, quando non trovano abbastanza immagini orripilanti da Gaza riciclano vecchie immagini usando Photoshop o video di altri conflitti, per lo più in Iraq e Siria, per mostrare “atrocità” a Gaza. Nell’attuale conflitto sta succedendo anche questo.
Ma per quanto YouTube, Facebook e altri social network siano utili per raggiungere un’audience più ampia, reporter e giornalisti continuano a svolgere il loro ruolo. E purtroppo non hanno scelta. Spiega il giornalista: “i palestinesi hanno scritto il copione dello spettacolo. E come dicono i direttori, se c’è sangue c’è audience”. Quelli sul campo sono spinti a mandare una storia “succulenta” che possa andare in prima pagina.
Israele è una democrazia in cui la libertà di espressione è totale, mentre i territori palestinesi sono governati da dittatori, nel migliore dei casi “moderati”, altrimenti da tiranni islamisti. Un reporter è un professionista che campa raccontando quello che vede e che sente, commentandolo e fotografandolo. In Egitto tre giornalisti sono stati recentemente condannati a sette anni di carcere, con un processo vergognosamente politicizzato, semplicemente per aver fatto il loro lavoro: perché per loro sfortuna lavoravano per al-Jazeera, la tv del Qatar che è principale sostenitore dei Fratelli Mussulmani, che sono stati appena messi al bando dal nuovo governo egiziano. Persino il presidente “moderato” dell’Autorità Palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) fa arrestare i giornalisti che osano sollevare interrogativi sul governo. Dove sono le proteste per queste violazioni dei diritti umani?

Fotoreporter al lavoro

Fotoreporter al lavoro

Cosa ha più valore telegenico: le sorprendenti scoperte e innovazioni degli scienziati israeliani che contribuiscono a migliorare la vita di tutti o le immagini di un ragazzo che tira sassi a un blindato?
E’ immaginabile lavorare in Cisgiordania o a Gaza, o in molti stati arabi e islamici, sostenendo un punto di vista controcorrente che si faccia interprete delle ragioni d’Israele o anche solo un punto di vista equilibrato? Purtroppo la risposta è no.
I reporter rischiano la vita. In Cisgiordania vengono presi in carico da “traduttori” palestinesi addestrati ad accompagnare i giornalisti come facevano in epoca sovietica i cosiddetti “sputnik” (in russo, compagno di viaggio), veri guardaspalle addestrati a promuovere il comunismo facendo sì che turisti e giornalisti vedessero soltanto quello che il governo voleva vedessero, e soprattutto non vedessero quello che il governo non voleva vedessero.
In tutto il Medio Oriente i reporter sono sotto minaccia, tranne che in Israele. E hanno una sola ovvia scelta: sostenere il punto di vista delle autorità (in questo caso palestinesi), o non lavorare più in Cisgiordania e a Gaza. Sporcare la lente dell’obiettivo o perdere il lavoro.
Mentre lavoravo a uno dei miei documentari, il palestinese che guidava la mia troupe mi offrì uno scoop. In quanto francese, dava per scontato che fossi filo-palestinese. “Sai che cosa rende? – mi disse – Quando un soldato israeliano uccide un ragazzo. Ti interessa? Si può organizzare, per diecimila dollari. Possiamo farlo succedere”. Parlava di una messa in scena o di un vero assassinio? Non osai chiederlo. Voglio continuare a credere, nonostante tutto, che non si sacrifichino coscientemente dei bambini in nome dello spettacolo.
Ma, come conclude il giornalista straniero, “tutti i direttori dicono la stessa cosa: se non c’è un risvolto anti-israeliano, non interessa”.
Nella società palestinese tutto è pensato in funzione della promozione del martirio. Se il programma non fosse così efficace – se i mass-media non guadagnassero tanto dalle scene più orrende, se i reporter fossero davvero liberi di fare il proprio lavoro nei paesi arabi e nei territori palestinesi – questa barbarie non ci sarebbe. Se i giornalisti non sapessero di poter contare sulla complicità, forzata o meno, di freelancer che forniscono alle agenzie internazionali scoop redditizi, il terrorismo su scala di massa degli ultimi tempi potrebbe non accadere nemmeno. Se ci fosse libertà di parola nei territori governati dai palestinesi, come in qualunque altro paese arabo islamico, emergerebbero i fatti, e non spettacoli morbosamente violenti.
Auguriamo il meglio ai palestinesi – un governo responsabile e trasparente che si dedichi a migliorare le loro condizioni di vita – ma è altamente probabile che se così fosse, la “causa palestinese” avrebbe perso gran parte del sostegno già da lungo tempo. E non avrebbero altra scelta che cercare la pace.
Questo ignobile spettacolo va fermato. Ma come?
(Da: Gatestone Institute, 22.7.14)