L’opzione della cooperazione

Una miriade di ostacoli impedisce progressi diplomatici, ma esistono diversi ambiti in cui dialogo e cooperazione possono portare vantaggi a entrambe le parti

Editoriale del Jerusalem Post

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e la cancelliera tedesca Angela Merkel, lo scorso 16 febbraio a Berlino

Leader politici di primo piano, certamente non sospettabili di opinioni intransigenti sul conflitto israelo-palestinese, hanno rinunciato alla speranza di poter arrivare a un accordo di pace negoziato perlomeno nel prossimo futuro. Parlando a Berlino lo scorso 16 febbraio nel corso di una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha espresso il suo pessimismo osservando che “questo non è certo il momento giusto per fare veri progressi sul piano complessivo” a causa dell’attuale temperie in Medio Oriente. Restando in Israele, a fine gennaio Isaac Herzog, leader dell’opposizione e capo dell’Unione Sionista di centro-sinistra, ha detto a radio Galei Tzahal che, al momento, la soluzione a due stati non è fattibile. “Non vedo la possibilità in questo momento di attuare la soluzione a due stati – ha spiegato Herzog – Voglio auspicarla e voglio muovermi in quella direzione; voglio il negoziato, sono pronto a sottoscriverlo e sono impegnato in questo senso, ma non vedo la possibilità di farlo in questo momento”.

Il ministro delle finanze israeliano Moshe Kahlon

Il ministro delle finanze israeliano Moshe Kahlon

In effetti c’è una miriade di ostacoli che impedisce alle parti di fare progressi. Il “moderato” presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non accetterebbe mai dei compromessi su questioni come il “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi (e loro discendenti) all’interno di Israele, né acconsentirebbe che restassero parte di Israele blocchi di insediamenti come Ma’aleh Adumim, nemmeno in cambio dell’ipotizzata cessione di equivalenti porzioni di territorio da parte israeliana. Non accetterebbe mai un controllo israeliano sulla Valle del Giordano (il confine di sicurezza orientale di Israele), né una condivisione di Gerusalemme come capitale congiunta israelo-palestinese. E quand’anche acconsentisse a un quadro d’accordo accettabile per la maggioranza degli israeliani, non rappresenterebbe comunque la maggioranza dei palestinesi. La dirigenza politica palestinese è irrimediabilmente spaccata tra Ramallah e Gaza, e sia a Gaza che in Cisgiordania Hamas appare assai più popolare di Fatah, la fazione di Abu Mazen. Con Hamas, un’organizzazione terroristica esplicitamente votata alla distruzione dello stato ebraico, non ci potrà mai essere una vera soluzione del conflitto. E poi, se i palestinesi non riescono a comporre in modo pacifico nemmeno le divergenze fra loro, come ci si può aspettare che raggiungano un autentico accordo di pace con Israele?

Tuttavia, ci potrebbe essere un modo per fare progressi. Le parti, Israele in particolare, possono adottare misure volte a migliorare la situazione sul terreno e promuovere relazioni migliori. Esistono diversi ambiti in cui dialogo e cooperazione potrebbero portare vantaggi a entrambe le parti. E a quanto pare alcune misure sono già state adottare.

Il ministro delle finanze dell’Autorità Palestinese Shukri Bishara (a sinistra) con il ministro israeliano Yuval Steinitz, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu nel settembre 2013

Secondo un reportage della tv Canale 10, il ministro israeliano delle finanze Moshe Kahlon ha incontrato più volte il suo omologo palestinese, Shukri Bishara. I due hanno discusso una serie di iniziative volte a migliorare i legami tra palestinesi e israeliani, iniziative che sono state sottoposte a Netanyahu per la sua approvazione. Si va dall’idea di invitare medici palestinesi ad esercitarsi in ospedali israeliani, a quella di offrire nuove opportunità di studio e praticantato a imprenditori e ingegneri palestinesi nel settore hi-tech israeliano, a quella di consentire ad aziende e appaltatori edili palestinesi di operare in Israele ampliando l’accesso al mercato israeliano rispetto alla situazione attuale, che vede solo i lavoratori a giornata palestinesi recarsi in Israele per lavorare nell’edilizia.

Alcuni hanno criticato Kahlon per i suoi incontri con Bishara, un uomo con un passato controverso. Bishara diresse le operazioni della Arab Bank in Cisgiordania durante una parte della seconda intifada, l’intifada delle stragi di civili israeliani durata dal 2000 al 2005. L’11 settembre 2014, durante il primo processo civile di una banca in base alla legge anti-terrorismo americana, Bishara venne interrogato negli Stati Uniti sul suo ruolo nel trasferimento di fondi alle famiglie di terroristi suicidi e ad Osama Hamdan, membro di alto rango di Hamas che risiedeva in Libano. Bishara non è mai stato incriminato. Tuttavia gli addebiti che circolano intorno al suo ruolo nella Arab Bank durante la seconda intifada danno un’idea delle difficoltà insite nella cooperazione tra israeliani e palestinesi. Praticamente tutti i membri di primo piano di Fatah hanno preso parte in passato alla lotta palestinese, che comprende invariabilmente violenti atti di terrorismo. In effetti, è quasi impossibile emergere come politico palestinese senza avere le necessarie credenziali come artefice di questo genere di “lotta”.

Nondimeno, noi crediamo che iniziative come quelle avanzate da Kahlon siano l’unico modo per promuovere una stabilità economica per i palestinesi. C’è da sperare che un miglioramento delle condizioni socio-economiche dei palestinesi possa generare, prima o poi, un’atmosfera più favorevole al dialogo e ai negoziati.

Angela Merkel e Isaac Herzog hanno ragione. Attuare in questo momento una soluzione a due stati non è fattibile. Israele deve orientarsi piuttosto verso iniziative pratiche che migliorino la vita dei palestinesi e favoriscano un clima di fiducia e di cooperazione.

(Da: Jerusalem Post, 22.2.16)