L’Oriente che vive nel passato

Tutta questa regione è composta da stati artificiali che non hanno mai saputo creare un’unità nazionale al di là di etnie e tribù

Di Salman Masalha

Il poeta, scrittore e saggista arabo israeliano della comunità drusa Salman Masalha, autore di questo articolo. Masalha, fra l’altro, insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università di Gerusalemme

L’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, rivela troppo spesso la propria ignoranza riguardo a questa parte del mondo. Questa incapacità di comprendere è legata a qualcosa di profondo nel cuore dell’esperienza americana. Qualcosa che è anche il segreto del successo degli Stati Uniti, ciò che ne ha fatto una superpotenza.

A differenza della nostra regione, gli Stati Uniti sono una superpotenza con una breve storia: che è una delle fonti della sua forza. Nei luoghi dove c’è tanto passato, come il Medio Oriente, è difficile vedere il futuro. L’Oriente è come un uomo con gli occhi attaccati alla parte posteriore della testa: non può mai guardare avanti. Andrà sempre a marcia indietro, perché è l’unica direzione in cui può vedere la strada. Vede il futuro solo nel passato.

I trilioni di dollari spesi per la guerra al terrorismo, con le conquiste dell’Afghanistan e dell’Iraq e tutti gli sforzi fatti per diffondere la concezione democratica nel mondo arabo e musulmano, tutto questo oggi sta finendo nella pattumiera, nei giorni in cui l’ISIS (lo Stato Islamico nell’Iraq e nel Levante) conquista intere porzioni di territorio in Iraq. L’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, resta stordito di fronte al repentino crollo dell’esercito iracheno, finanziato e addestrato dagli Stati Uniti. L’Occidente non riesce a capire come intere unità di soldati e ufficiali abbiano abbandonato le proprie basi e postazioni, messe in fuga da manipoli di agguerriti combattenti sunniti.

E invece non dovrebbe stupire nessuno, il crollo di quel grande esercito iracheno che era stato piegato ancor più rapidamente, meno di un decennio fa, dall’invasione americana. Anche allora, soldati e ufficiali si dispersero spogliandosi delle uniformi.

Gli Accordi Sykes-Picot, del 1916 per la spartizione delle rispettive “zone d’influenza” fra Inghilterra, Francia e Russia zarista dopo il crollo dell’Impero Ottomano.

Per capire ciò che sta accadendo in Iraq si deve comprendere un fatto semplice: l’esercito iracheno, quello di allora guidato da Saddam e quello di oggi addestrato dagli Stati Uniti, non potrebbe mai essere definito “l’esercito del popolo iracheno” per la semplice ragione che non esiste nulla che si possa chiamare popolo iracheno. Tutta questa regione è composta da stati artificiali, creati quando Mister Sykes e Monsieur Picot si spartirono le spoglie dell’Impero Ottomano. Gli stati che ne nacquero non sono mai stati capaci di creare un’unità nazionale al di là di etnie e tribù, e sono sempre stati governati all’ombra del sanguinoso, lacerante passato.

Tutti ricordano come l’esercito libanese si divise secondo fazioni etniche durante la guerra “civile” degli anni ’70-‘80. Da tre anni, il mondo può vedere come l’esercito del presunto “popolo siriano” massacra centinaia di migliaia di siriani, mentre altri milioni li caccia via come polvere al vento. Questo ci dice che usare la parola “popolo” a proposito di questi paesi è una farsa.

La verità si può trovare nelle dichiarazioni fatte dal primo ministro iracheno Nouri al-Maliki quando ha inequivocabilmente svelato le tensioni dietro le quinte che hanno innescato la guerra “civile” in Mesopotamia: “Coloro che hanno ucciso al-Hussein [il figlio di Ali Ibn Ali Talib, quarto califfo di Maometto, su cui è stata fondata la corrente sciita] non sono scomparsi. Sono ancora qui. I seguaci di al-Hussein e i seguaci di Yazid [figlio del fondatore della dinastia sunnita degli Omayyadi] si affrontano di nuovo in una lotta spietata senza compromessi. Questo ci insegna che il crimine contro al-Hussein è ancora in corso”.

Ecco come il primo ministro iracheno descrive l’esperienza di quella nazione: un’esperienza orientale, è non vi è proprio nulla di nuovo.

(Da: Ha’aretz, 18.6.14)