L’Unrwa, un’agenzia da chiudere

L’agenzia Onu – caso unico al mondo – anziché risolvere il problema dei profughi palestinesi lo perpetua, e perpetua il conflitto

Editoriale del Jerusalem Post

Discendenti di profughi palestinesi assistiti dall’Unrwa

Gli Stati Uniti del presidente Donald Trump stanno giustamente riconsiderando la logica alla base del finanziamento dell’Unrwa, l’Agenzia Onu per i profughi palestinesi, almeno per come funziona attualmente. Sono già stati congelati circa 125 milioni di dollari, che rappresentano approssimativamente un terzo del sostegno annuale degli Stati Uniti all’agenzia. A giudicare da un tweet di Trump che ha preceduto la decisione di congelare gli aiuti, sembra che il presidente degli Stati Uniti intenda condizionare il versamento dei fondi al fatto che i palestinesi collaborino a risolvere il conflitto israelo-palestinese. La preoccupazione di Trump è legittima. L’Unrwa, che esiste dal 1949, doveva essere una soluzione temporanea fino a quando non fosse stato risolto il “problema dei profughi palestinesi”. Ma se l’Autorità Palestinese si rifiuta di collaborare con gli Stati Uniti per risolvere il problema, gli Stati Uniti non hanno motivo di continuare a saldare all’infinito i conti dell’agenzia.

Si possono poi individuare alcune altre buone ragioni per cui l’Unrwa, che nella sola Gaza paga lo stipendio a 11.500 dipendenti, dovrebbe essere radicalmente riformata, se non del tutto smantellata.

Il primo problema è che l’Unrwa perpetua il conflitto tra Israele e palestinesi. Se i profughi palestinesi originari del 1948 (sia quelli che lasciarono le loro case volontariamente sia quelli che vennero costretti a farlo) potevano essere legittimamente definiti “profughi”, perché mai i loro nipoti e pronipoti dovrebbero condividere tale status? Tutti gli altri profughi del mondo vengono assistiti dall’Alto Commissario Onu per i rifugiati e il loro status non viene trasmesso a nipoti e pronipoti. I palestinesi, invece, hanno un’agenzia tutta per loro, l’Unrwa appunto, che è l’unica a prevedere la trasmissione ereditaria dello status di profugo (con i servizi a cui esso dà titolo a spese della comunità internazionale).

Maggio 2013: Dirigenti Unrwa in posa con una mappa della “Palestina”: Israele risulta cancellato dalla carta geografica

Questo inchioda milioni di palestinesi in una sorta di limbo. Anziché andare avanti con la loro vita, i palestinesi in luoghi come Gaza continuano a restare aggrappati al falso sogno di un ritorno a Giaffa, a Haifa o a Gerusalemme. Il che permette il tipo di apartheid in vigore in un paese come il Libano, dove vive più di un milione di palestinesi privi di uno status ufficiale e di basilari diritti: non hanno la cittadinanza e dunque sono confinati in miseri “campi profughi” (in pratica, quartieri diseredati) dove prosperano crimine e terrorismo. Ma poiché sono “profughi”, il governo libanese può lavarsene le mani, invece di adoperarsi per integrarli nella società o aprire loro strade alternative.

Tutto ciò potrebbe cambiare se l’Unrwa venisse riformata o chiusa del tutto. Infatti l’Unrwa, che teoricamente dovrebbe rendere i “profughi” persone autosufficienti,  permette in realtà che essi continuino a coltivare il mito del cosiddetto “diritto al ritorno” (un “diritto” che non esiste per nessuna comunità al mondo di discendenti di profughi). All’interno dell’Unrwa è un’eresia ventilare l’idea che quella di stabilirsi un giorno dentro Israele sia una pura illusione.

Non basta. L’Unrwa perpetua anche la cultura del parassitismo assistenziale. Per intere generazioni, i palestinesi nella striscia di Gaza come quelli in Giordania, Cisgiordania e Libano sono stati abituati a considerare un diritto i sussidi offerti dall’agenzia, grazie ai finanziamenti internazionali. Gli Stati Uniti, e non solo loro, dovrebbero adoperarsi per promuovere l’iniziativa personale, e non minarla promuovendo la cultura dell’assistenzialismo improduttivo.

Dodici anni dopo che Israele ha sgomberato tutte le sue comunità civili e posizioni militari dalla striscia di Gaza, l’Unrwa continua a trattare come “profughi” i palestinesi che ci vivono. Perché? E perché devono essere considerati “profughi” i palestinesi che vivono sotto il governo dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania? Cosa differenzia questi cosiddetti “profughi” dai loro compaesani non “profughi”? Come mai lo status di “profugo palestinese” viene tramandato di generazione in generazione, mentre ciò non avviene per nessun altro profugo al mondo?

Gli abitanti di Gaza e Cisgiordania hanno il diritto di votare nelle elezioni palestinesi (quando i loro dirigenti si degnano di indirle). È il fallimento degli stessi palestinesi – la loro incapacità di darsi una dirigenza più pragmatica e di porre fine alla spaccatura tra Hamas e Fatah – ciò che ha perpetuato il limbo politico in cui si trovano. Forse che i membri di tutte le “società fallite” devono essere internazionalmente qualificati come “profughi”?

Trump ha chiaramente tutte le ragioni per domandarsi se il denaro dei contribuenti americani viene usato in modo appropriato. E’ chiaro che non si può pensare a una abrogazione dell’Unrwa senza aver prima approntato un piano per prevenire un disastro umanitario, soprattutto a Gaza. Ma è anche chiaro, è non da adesso, che l’Unrwa, così come funziona attualmente, deve essere chiusa.

(Da: Jerusalem Post, 8.1.18)