Ma cosa guadagna Israele dal congelamento degli insediamenti?

Non ha smosso né Abu Mazen né la Lega Araba, mentre Usa ed Europa paiono ben poco impressionati

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2689Facciamo un rapido calcolo dei vantaggi diplomatici maturati da Israele da quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato, lo scorso 25 novembre, la moratoria per dieci mesi di tutte le nuove attività edilizie negli insediamenti, una dichiarazione che ha fatto seguito, con ritardo, al discorso che tenne all’Università Bar-Ilan il 14 giugno col quale Netanyahu accettava formalmente la creazione di una “Palestina” smilitarizzata come obiettivo finale dei negoziati.
Da quando il congelamento è stato annunciato, l’inviato speciale americano George Mitchell non si è certo abbandonato all’entusiasmo. Pur riconoscendo che Netanyahu si era spinto più avanti di qualunque precedente leader israeliano, tutto quello che Mitchell è riuscito ad aggiungere è che desidera vedere “quanto prima possibile” la ripresa dei negoziati sullo status definitivo. Al che il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha risposto in sostanza: “Non penso proprio”.
Parlando a un centro studi di Washington, Mitchell si è per lo meno sforzato di ripetere quello che aveva poco prima affermato il segretario di stato Hillary Clinton, e cioè che i negoziati dovrebbero “basarsi sulle linee del 1967 con scambi concordati”. Affermazione significativa, giacché finora l’amministrazione Obama sembrava tirarsi indietro rispetto alla famosa lettera ad Ariel Sharon dell’aprile 2004 con cui l’allora presidente americano George W. Bush dichiarava che il risultato del negoziato avrebbe dovuto basarsi sulla formula “1967-più” (alcuni cambiamenti). Purtroppo lo stesso Netanyahu, prendendo una straordinaria cantonata diplomatica, ha accettato che venissero inclusi nel congelamento delle costruzioni anche quei blocchi di insediamenti che, per generale consenso in Israele, si considerano destinati a restare israeliani (nel quadro dello scambio territoriale di cui sopra).
Di fronte alla reazione minimalista dell’amministrazione Usa ai due storici annunci di Netanyahu, e alla luce della comprovata incapacità di Washington di persuadere i governi arabi a fare il minimo passo verso la normalizzazione dei rapporti con Israele per dimostrare che la decantata “iniziativa di pace araba” non è solo una manovra propagandistica, non si può far altro che domandarsi dove stia portando questo congelamento.
Se significa così poco per la Casa Bianca e niente del tutto per i palestinesi – e se oltretutto non rientra in una più ampia e coerente strategia con la quale Netanyahu enunci quali dovrebbero essere i confini di Israele – e se il lacerante impatto della moratoria sul piano interno è tutto dolori e nessun progresso, allora dove sono i vantaggi?
Poi c’è stata l’iniziativa della presidenza svedese dell’Unione Europea che, “prendendo atto” del congelamento di Netanyahu, proponeva di consacrare la posizione palestinese su Gerusalemme come politica ufficiale della UE. È già abbastanza negativo che l’Europa respinga la sovranità di Israele su Gerusalemme ovest sostenendo di non voler pregiudicare i risultati del negoziato. Ma vedere la Svezia che premeva con tanta forza perché venisse riconosciuta Gerusalemme est come capitale della “Palestina” mentre Abu Mazen si rifiuta di sedersi al tavolo dei negoziati è qualcosa di profondamente sconfortante per quella grande maggioranza di israeliani che vorrebbe genuinamente perseguire una composizione del conflitto coi palestinesi. Evidentemente per certi europei è politicamente più facile scimmiottare le rivendicazioni dell’Olp anziché sostenere una soluzione equa, che tenga conto anche delle sensibilità e delle esigenze degli ebrei.
Con tutta evidenza la richiesta di Abu Mazen di congelare gli insediamenti è, prima di ogni altra cosa, fasulla. Il possibile accordo di pace risolverebbe in modo permanente la questione di dove gli ebrei possano esercitare i loro diritti e di quali insediamenti debbano essere sgomberati. Dunque, perché stare a discutere di un congelamento quando si potrebbe negoziare sui confini definitivi?
La vera ragione per cui Abu Mazen non vuole trattare è perché spera che, tenendo duro, l’esasperata amministrazione americana finirà con l’imporre a Israele la posizione di Fatah. E per giunta non vuole apparire conciliante mentre fra i palestinesi sono in crescita le fortune di Hamas. Non aiuta il fatto che Netanyahu lo metta in una posizione insostenibile. L’Olp, che ufficialmente si astiene dalla lotta armata, è dal 1993 che chiede la scarcerazione in massa di detenuti palestinesi, richiesta cui Israele ha risposto in a pizzichi e smozzichi, sotto la voce “aiutare Abu Mazen”. Hamas invece, prendendo in ostaggio un solo soldato israeliano e attenendosi al suo ricatto originario per più di tre anni, sta per ottenere la scarcerazione di mille terroristi detenuti nelle carceri israeliane, compresi alcuni dei più infami. La popolarità dei fondamentalisti islamisti schizzerà alle stelle, quella di Fatah andrà a picco.
Per aggiunge il danno alla beffa, Netanyahu sembra che accarezzi l’idea di rimettere in libertà Marwan Barghouti, il cui arrivo a Ramallah procurerebbe un grande mal di pancia ad Abu Mazen, e affretterebbe un riavvicinamento fra Fatah e Hamas a spese sia di Israele che di Abu Mazen. Nessuna meraviglia che il rais palestinese tenga il broncio.
Sicché il congelamento di Netanyahu, fortemente spinto degli americani, ha messo i coloni contro i soldati e non ha smosso né Abu Mazen né la Lega Araba; Hamas è incerta e l’Europa è ben poco impressionata. L’amministrazione Obama, che finora ha solo offerto qualche stiracchiato encomio, dovrebbe fare molto di più, e di meglio.

(Da: Jerusalem Post, 8.12.09)

Nella foto in alto: una veduta di Efrat, a Gush Etzion: un gruppo di villaggi ebraici fondati negli anni ’20 circa 20 km a sud di Gerusalemme, conquistati e distrutti dalla Legione Araba di Giordania dopo cinque mesi di assedio durante la guerra del 1948, ricreati dopo il 1967.