Ma perché tanto chiasso?

Le costruzioni annunciate (una settimana fa) impediscono ai palestinesi di negoziare (da 15 mesi)?

di Barry Rubin

image_2775Si sono scritte un sacco di sciocchezze circa l’annuncio del governo israeliano che verranno costruiti 1.600 nuovi appartamenti in un quartiere di Gerusalemme est. La scelta dei tempi è stata sicuramente stupida, dal momento che il vice presidente Usa Joe Biden si trovava in quel momento nella città, e non ha apprezzato la cosa. E poi, venirsene fuori con quell’annuncio proprio quando stavano per iniziare negoziati indiretti con l’Autorità Palestinese non ha fatto apparire Israele granché collaborativo.
Ma è tutto qui. Il gesto, certo non tempestivo, non era tuttavia né una provocazione, né la creazione di “un nuovo insediamento”, e nemmeno una prova che Israele non voglia la pace.
Chiunque conosca bene Israele capisce che si è trattato di quella che in lingua locale si definisce una “fashlà”, vale a dire una stupida cavolata del tipo che non di rado accade nelle faccende di governo. Israele combina infatti il candore di paese del vecchio mondo con una professionalità burocratica da paese del terzo mondo. L’ufficio competente ha agito con “rosh katan” (poco cervello o, se si preferisce, visione ristretta) senza prendere in considerazione l’impatto della cosa, né essersi consultato con coloro che si occupano di politica estera. Erano solo tutti entusiasti di far felice il loro elettorato annunciando la costruzione di nuove abitazioni. L’area in questione non è un qualche nuovo insediamento, bensì un quartiere a circa cinque isolati dalla vecchia linea pre-’67. Gli haredim (ultraortodossi) che vi vivono hanno il tasso di natalità più alto del paese e dunque hanno un disperato bisogno di nuovi appartamenti.
Al massimo, quello che l’annuncio dimostra è che Israele non vuole né intende cedere tutta Gerusalemme est, nel quadro di un futuro accordo di pace: il che non è certo una novità.
Sarebbe stato meglio per la posizione internazionale d’Israele se l’annuncio non fosse stato fatto? Sì, perché quell’annuncio permette ora all’amministrazione Obama (che ha bisogno di scusanti per il suo proprio insuccesso nel processo di peacemaking) e all’Autorità Palestinese e ai paesi arabi (che hanno bisogno di qualche giustificazione per le loro politiche) di dare tutta la colpa a Israele.
Ma si può affermare che quell’annuncio cambi realmente il corso del processo di pace, che non sta andando da nessuna parte a causa dell’intransigenza dei palestinesi sulle vere questioni centrali? O che quell’annuncio fa cambiare idea e fa ripudiare la pace a quell’Autorità Palestinese e a quegli stati arabi che vengono descritti come smaniosi di arrivare a un accordo di pace? La risposta è chiaramente no.
Dunque, se l’annuncio in realtà non modifica nulla, la sua tempistica è stata sì stupida, ma non costituiva né un deliberato sabotaggio, né la prova di cattiva volontà israeliana verso la pace.
Si consideri piuttosto il vero sfondo si cui si sono prodotti i recenti avvenimenti.
Sin dal 1993, alla firma dell’Accordo di Oslo, Israele ha annunciato che avrebbe continuato a costruire negli insediamenti già esistenti. L’Olp accettò questo quadro, e per tutti i sedici anni successivi la questione delle attività edilizie negli insediamenti esistenti non ha mai avuto alcun effetto sui negoziati. Nel gennaio 2009 l’Autorità Palestinese ha bloccato i negoziati perché Hamas attaccava Israele dalla striscia di Gaza e Israele si difendeva. Naturalmente Hamas è nemica anche dell’Autorità Palestinese, e non solo di Israele, e l’Autorità Palestinese sarebbe contentissima se Israele la debellasse. Ma per le sue pubbliche relazioni, l’Autorità Palestinese doveva fingere una piena solidarietà fra palestinesi.
Poche settimane dopo, il nuovo presidente americano Barack Obama chiedeva lo stop di tutte le attività edilizie negli insediamenti. Alla fine Israele accettava, ma annunciando che avrebbe continuato a costruire a Gerusalemme est. Gli Stati Uniti accoglievano questo aggiustamento, addirittura lodando la scelta israeliana come un’importante concessione. Ma l’Autorità Palestinese continuava a rifiutarsi di tornare al tavolo negoziale. Si rifiutava perché le attività edilizie la offendevano così profondamente? No. Lo faceva perché i capi estremisti di Fatah non vogliono affatto arrivare a un accordo di pace definitivo, giacché ritengono di poter arrivare prima o poi alla vittoria totale, con la cancellazione di Israele. Allo stesso tempo, i più moderati fra loro sono troppo deboli per fare un accordo, a causa di Hamas e degli estremisti dentro la stessa Olp.
Nel settembre 2009 Obama annunciava che entro due mesi vi sarebbero stati a Washington negoziati di pace pieni e conclusivi. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu diceva di sì, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) diceva di no. Alla fine, dopo altri sei mesi di sforzi estenuanti, l’Autorità Palestinese si degnava di accettare dei colloqui, ma solo indiretti.
Ma, alt un momento: se – come si dice – è Israele che non vuole un accordo mentre i palestinesi lo vogliono disperatamente giacché la loro situazione è – per dirla con le parole di Obama – “intollerabile”, allora come mai la realtà dei fatti è tutta il contrario? Dev’esserci qualcosa che non funziona in questa spiegazione.
Come Obama ha involontariamente intralciato i negoziati esigendo il congelamento totale degli insediamenti (giacché nessun leader palestinese potrebbe pretendere da Israele meno di ciò che esige il presidente Usa), così ora lui e Biden hanno fatto la stessa cosa con i colloqui indiretti.
Ma, in quest’ultimo caso, la colpa non è stata forse di Israele, per via di quella stupida tempistica di un annuncio burocratico? Certamente sì. E tuttavia, il modo in cui gli Stati Uniti hanno maneggiato la questione ha trasformato un problema seccante in un problema di per sé molto peggiore.
Perché i governi e i mass-media occidentali non dicono che il rifiuto dell’Autorità Palestinese di negoziare da quindici mesi dimostra che non vuole veramente la pace? Dopo tutto, secondo l’opinione corrente sul conflitto, dovrebbe essere l’Autorità Palestinese a chiedere immediati negoziati diretti per arrivare a un accordo di pace globale e all’agognato stato palestinese. E invece Abu Mazen ha subito colto l’occasione offerta dall’annuncio della costruzione di un po’ di appartenenti per dichiarare che non avrebbe più trattato, nemmeno indirettamente. È sdegnato? È sconvolto? Si sente tradito? No, al contrario, è contentissimo di avere un’altra scusa per fare quello che vuole: non negoziare con Israele.
E così Abu Mazen ottiene di bloccare i negoziati, si tiene le sue vittorie e dà la colpa a Israele. Sebbene Abu Mazen e Autorità Palestinese non vadano granché d’accordo col presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, su un punto la pensano allo stesso modo: entrambi sono (erroneamente) convinti che l’occidente stia abbandonando Israele. E dunque, perché mai non dovrebbero respingere la pace e tentare di distruggere questo indebolito Israele (nel caso di Ahmadinejad) o anche solo aspettare (nel caso di Abu Mazen) che l’occidente gli offra lo stato palestinese su un piatto d’argento senza dover fare nessuna concessione?
Come ha indicato lo stesso Obama, non ci sono vere speranze per un accordo globale. I colloqui sono più che altro un gesto di public relations di tutti quelli coinvolti. Ma finché il grosso dell’occidente continuerà a inviare i segnali sbagliati – è tutta colpa di Israele, non verrà fatta nessuna vera pressione sull’Autorità Palestinese – la sua politica non farà che ritardare ogni progresso verso la pace, a dispetto delle loro migliori intenzioni di promuoverla.

(Da: Jerusalem Post, 14.3.10)

Nella foto in alto: Barry Rubin, autore di questo articolo