Meir Shalev

Intervista esclusiva

La lingua e’ meravigliosa quando un bambino capisce cio’ che e’ stato scritto centinaia di anni fa
Intervista in esclusiva allo scrittore israeliano Meir Shalev
di Claudia Rosenzweig (13.11.00)

Lo scrittore israeliano Meir Shalev e’ nato nel 1948 a Nahalal, un villaggio agricolo, e attualmente vive a Gerusalemme. Di lui il lettore italiano conosce gia’ E fiori’ il deserto (trad. di G. Sciloni, Rizzoli, Milano 1990) e Per amore di una donna (trad. di E. Loewenthal, Frassinelli, Milano 1999). Lo intervistiamo mentre e’ di passaggio a Milano, in occasione della pubblicazione in italiano del suo libro Il pane di Sarah (trad. di E. Loewenthal, Frassinelli).

Chi si aspettasse uno scrittore israeliano impegnato e provocatorio, sul modello di A. B. Yehoshua o di Amos Oz, rimarrebbe deluso. Di fronte a noi abbiamo uno scrittore che ama la fantasia, la poesia, le leggende e soprattutto che ha un senso dello humour che non risparmia nessuno, tanto meno se stesso. A differenza dei molti che, come scrive Amos Oz, si sentono un po’ dei profeti, Shalev rifiuta questa etichetta e soprattutto questo ruolo. E’ evidente che non ama prendersi troppo sul serio. Parla in modo chiaro e conciso, senza risparmiarsi qualche battuta. Gli abbiamo fatto qualche domanda sui suoi punti di riferimento culturali, sulla questione della lingua, che in Israele e’ ancora al centro di un vivo dibattito, sul rapporto tra letteratura e politica e, infine, su quello tra lui, scrittore, e il suo pubblico. Negli occhi nasconde un sorriso ironico che da’ l’impressione che, in mezzo a tutto questo andare in giro a fare conferenze e a posare per fotografie, ci si puo’ anche divertire. E infatti della breve conversazione con lui ci rimane come un velo di allegria; quella di chi, pur senza nascondersi niente, riesce ad andare d’accordo con la realta’.

Alcuni critici israeliani hanno parlato della presenza di una sorta di realismo magico nei suoi libri, dell’influsso di scrittori come Marquez. Un influsso di questo tipo si sente anche nei libri che sono apparsi in italiano, Per amore di una donna, Il pane di Sarah. Si riconosce in questa osservazione?
Non penso. Non ne sono sicuro. C’e’ una qualche somiglianza. Ma piu’ che altro, penso che ci sia un’eta’ in cui ormai non si e’ piu’ influenzati dagli altri. Io, davvero, fin da quando ero molto giovane, ho letto molto, e direi che i miei ”padri letterari” sono Faulkner e Melville per la letteratura americana; della letteratura russa Gogol, Babel, Nabokov, Thomas Hardy e Henry Fielding; in quella inglese, alcuni libri di Thomas Mann e naturalmente la mitologia greca e la nostra Bibbia. Ho letto davvero tanto da quando ero bambino, e questo mi ha dato qualcosa.

E’ nella letteratura ebraica quali sono quelli che considera i suoi maestri?
La Genesi. E un po’ Sholem Alekhem. Che pero’ ha scritto in yiddish.

Vorrebbe raccontarci qualcosa del suo legame con questa lingua, che appare anche in alcuni passi dei suoi romanzi?
I miei nonni da entrambi i lati arrivarono in Eretz Israel all’inizio del secolo (1904-1906) e misero una scomunica sullo yiddish: era la lingua dell’esilio. Se dovevano parlare in modo che i figli non capissero, parlavano russo. Se tu avessi parlato a mio nonno in yiddish, non ti avrebbe risposto, come se le parole gli fossero passate accanto senza entrare nelle sue orecchie.

C’e’ un’altra domanda connessa alla questione della cultura israeliana e del suo rapporto con il passato. Diversi scrittori israeliani sottolineano che ormai i giovani israeliani hanno perso il sistema di riferimenti rappresentato dalle fonti della tradizione letteraria ebraica, non conoscono bene l’ebraico, non capiscono Agnon e gli altri scrittori dell’inizio del secolo. Lei cosa ne pensa?
In ogni generazione, sempre i vecchi dicono che i giovani non vanno bene. Cosi’ dicevano al tempo di Socrate, cosi’ dicevano al tempo di Qohelet. E’ vero che l’ebraico dei giovani oggi e’ piu’ povero di quello della mia generazione, ma l’ebraico della mia generazione e’ mediamente piu’ povero di quello della generazione dei miei genitori. Nonostante questo anche l’ebraico stesso cambia, ci sono molte parole nuove, altre che non si usano piu’. Questa e’ una realta’ per la quale non c’e’ niente da fare e neppure la scuola puo’ cambiare questa situazione. E comunque ci sono sempre dei giovani che continuano a leggere Agnon e Amos Oz e me. Il nostro non e’ un ebraico superficiale, ci leggono e io ricevo molte lettere: questa e’ la realta’. Bisogna ricordare anche che noi siamo cresciuti in una generazione in cui i libri erano piu’ o meno il nostro unico divertimento. Non c’era la televisione, non c’era internet e noi leggevamo molto, e la nostra lingua e’ migliore.

Legge i libri che vengono pubblicati in Israele?
Li leggo, ma poco. Leggo libri vecchi, che ho gia’ letto, che conosco. E’ molto difficile leggere mentre si scrive. Se leggo un libro molto buono, ne soffro, perche’ il mio e’ ancora una bozza; e se e’ un brutto libro, allora mi torna in mente quello che diceva sempre mia nonna (e sicuramente lo diceva in yiddish), e cioe’ che una donna incinta non deve guardare le scimmie. E se leggo un libro che non e’ buono, ho paura che influenzi quello che sto scrivendo.

Quando lei parla dell’importanza della Bibbia nella sua formazione, parla anche dei testi della tradizione ebraica? O si riferisce all’ebraico biblico?
Quando parlo della Bibbia, non parlo solo della lingua, ma soprattutto della narrazione biblica, dei personaggi biblici. Ho letto midrashim e commentari ebraici e tutto quello che mi interessava leggere. Ma oggi noi stiamo vivendo in un’epoca che difficilmente si puo’ trovare nella storia di una lingua: il vecchio ebraico esiste ancora e al tempo stesso la nuova lingua e’ in pieno fermento, come vino nei tini, ed e’ possibile prendere dall’uno e dall’altra, perche’ tra duecento anni, o persino tra cento anni, la situazione sara’ come nelle altre lingue, che un bambino, o anche un adulto, non capira’ l’ebraico antico. Adesso ci si trova ancora in quello stato meraviglioso per cui un bambino di dieci anni che legga qualcosa che e’ stato scritto centinaia di anni fa, capisce l’ottanta per cento. Date da leggere un testo scritto ai tempi di Re Artu’ a un bambino inglese e non capira’ niente. Questa e’ la situazione attuale, ed e’ una situazione buona.

Lei utilizza molto l’ebraico parlato nei suoi libri, questa lingua cosi’ diversa e distante da quella scritta?
La inserisco nella bocca dei personaggi, non nella mia mano. Cerco di scrivere nello stile adatto alle persone che parlano. Nella lingua che uso nelle descrizioni, non scrivo in ebraico biblico e neppure nell’ebraico parlato. Scrivo in una sorta di tenda dell’ebraico, che puo’ raccogliere sotto di se’ l’ebraico di tutte le epoche.

Lei e’ uno scrittore, ma qui in Italia e’ anche uno scrittore israeliano, e sicuramente le faranno molte domande sulla siutazione politica in Israele. Qual’e’ per lei il rapporto tra la letteratura e la vita politica?
La mia non e’ una letteratura politica. La realta’ israeliana e’ sullo sfondo, come se fosse uno scenario a teatro. I miei personaggi vanno al servizio militare, qualcuno muore in battaglia, sanno quello che succede nel paese, ma sono concentrati su se stessi, sul loro lavoro, sulla loro famiglia, sui loro problemi, e la politica e’ sullo sfondo. Quando voglio parlare di politica, lo faccio sui giornali. Prima di tutto a me non piace la letteratura politica, non mi piace scriverla e non mi piace leggerla. In secondo luogo, anche nella mia vita personale sono piu’ influenzato da quello che succede ai miei figli, a mia moglie, al mio lavoro, che non da quello che succede in politica. Non vivo esclusivamente una vita politica dalla mattina alla sera. La mattina accompagno i miei figli a scuola, poi vado a lavorare, le notizie le guardo alla televisione. Non mi stanno sparando nel cortile. E’ vero che la situazione puo’ essere preoccupante, ma non determina la mia vita e neppure i miei libri.

Lei ha citato Sholem Alekhem, uno scrittore particolarmente legato al suo pubblico di lettori. Anche lei si sente cosi’?
Io spero di essere legato al mio pubblico. Si’, mi sento legato al mio pubblico. Non scrivo per qualcuno in particolare. Scrivo per me stesso, ma poi ho un forte legame con i miei lettori e vedo che i miei libri riescono qui e la’ a toccare profondamente il cuore della gente. E’ chiaro che la gente che abita nei moshavim, nei villaggi, si sente molto colpita, perche’ si riconosce nei miei libri; ma anche altri, anche i giovani, leggono quello che scrivo, per questo non mi lamento. Come ho accennato prima, ricevo molte lettere dai giovani, anche dall’Asia, dove vanno molti di loro dopo il servizio militare.

Forse alla fine, molto semplicemente, abbiamo ancora bisogno di storie. La ringrazio molto.
Grazie a lei.