Mio padre, il soldato dell’occupazione (americana)

Se devo la mia esistenza a un atto "malvagio", e lo stesso vale per i miei figli, credo di potermene fare una ragione

Di Calev Ben-David

Calev Ben-David, autore di questo articolo

Nell’estate del 1945 il caporale dell’esercito americano David Mandell era di stanza nelle Filippine e veniva addestrato per partecipare all’Operazione Downfall, la progettata invasione del Giappone da parte delle forze Alleate. La sua unità sarebbe stata una delle prime a sbarcare sulla spiaggia, ragion per cui il caporale Mandell era convinto che sarebbe finito tra i caduti dell’operazione, che venivano stimati nell’ordine delle centinaia di migliaia. Poi, il 6 agosto, gli Stati Uniti sganciarono una bomba atomica su Hiroshima, e tre giorni dopo su Nagasaki, costringendo i giapponesi ad accettare la resa incondizionata. Decenni più tardi, in particolare negli anniversari di quell’evento, il caporale Mandell avrebbe più volte detto a suo figlio – cioè a me – che lui doveva la vita, ed io la mia stessa esistenza, alla decisione del presidente Harry Truman di usare le armi atomiche di nuova invenzione per sconfiggere i giapponesi.

Per me si è trattata di una precoce lezione sulla complessità etica della storia, sul fatto che eventi e sviluppi su cui spesso esprimiamo giudizi rapidi e sbrigativi raramente sono semplici come appaiono da punti di vista limitati nel tempo e nello spazio. Al giorno d’oggi, ad esempio, siamo più inclini a concentrare l’attenzione sulle terribili sofferenze inflitte dalle bombe atomiche ai civili giapponesi, piuttosto che sulle vite dei militari americani e quelle ancora più numerose (nell’ordine di milioni) di militari e civili giapponesi che sarebbero state sacrificate se la guerra fosse continuata come previsto.

David Mandell, padre dell’autore di questo articolo

Tra la poche fotografie che rimangono del servizio militare di mio padre ce n’è una che lo mostra, poco dopo questi eventi, mentre cammina su una strada, da qualche parte in Giappone, accompagnato da una giovane donna giapponese vestita come una geisha. Purtroppo mio padre è mancato quando io ero ancora troppo giovane per essere curioso di sapere i dettagli della sua storia personale, ragion per cui non ho fatto in tempo a interrogarlo sulle circostanze di quella particolare fotografia. Ma ancora più mi dispiace di non aver avuto la possibilità di parlare seriamente con lui di come si sentisse circa la maggior parte del suo servizio militare, trascorso come un soldato dell’occupazione post-bellica del Giappone. Questo rimpianto non ha fatto che aumentare nel corso degli anni giacché, crescendo negli Stati Uniti del periodo post-guerra del Vietnam, non avevo mai pensato che anch’io avrei fatto il servizio militare e tanto meno che anch’io avrei trascorso gran parte della mia esperienza in uniforme come un soldato d’occupazione, nel quadro di una dozzina di turni di servizio in Cisgiordania e Gaza come militare riservista.

Non potendomi avvalere del resoconto in prima persona di mio padre, mi diedi ad approfondire personalmente la storia dell’occupazione americana del Giappone, un argomento che – ho constatato – riscuote scarso interesse presso la maggior parte degli americani di mia conoscenza. Qualche dato curioso. E’ durata più a lungo di quanto molti sembrano pensare, prolungandosi fino al 1952 in tutto il paese, e fino al 1972 nelle isole Ryuku, abitate da oltre un milione di giapponesi. Gli Stati Uniti mantengono ancora oggi una importante presenza militare sul suolo giapponese, con oltre 50.000 soldati per lo più concentrati nelle grandi basi militari di Okinawa.

Le truppe d’occupazione alleate non mancarono di commettere la loro quota di crimini, negli anni dopo la guerra, comprese alcune migliaia di stupri documentati. Ma l’atteggiamento dei giapponesi verso l’occupazione alleata è complesso, troppo per essere analizzato qui in poche parole: molti riconoscono all’occupazione d’aver avviato il Giappone verso un’era di democrazia, progresso sociale e infine di prosperità. A volte è difficile ricordare che “occupazione” non era – e non è – sempre e solo una parolaccia. Cercherò di resistere qui alla tentazione di condurre un facile parallelo tra il servizio di mio padre come soldato d’occupazione in Giappone e il mio in Cisgiordania e Gaza, anche se questa tentazione esiste certamente. Ma effettivamente a volte mi chiedo come le generazioni future giudicheranno il mio ruolo nella storia, così come faccio io con il suo.

Un soldato israeliano ferito da un terrorista palestinese camuffato da giornalista, nell’ottobre 2015 in Cisgiordania

Naturalmente non ne ho idea. Ma anche in questa fase prematura, a eventi ancora in corso, sulla base delle mie esperienze come cittadino, soldato e giornalista ho raggiunto alcune conclusioni personali circa l’occupazione israeliana di territori palestinesi. Eccole.

Se gli stati arabi non avessero aggredito Israele nel 1967, e avessero concesso ai palestinesi che vivono in Cisgiordania e striscia di Gaza anche solo una minima autonomia politica durante i due decenni in cui Egitto e Giordania occupavano quelle aree, oggi lo stato palestinese sarebbe già una realtà.

In ultima analisi, sarà necessario arrivare a uno stato palestinese nella striscia di Gaza e su parti della Cisgiordania affinché Israele possa rimanere uno stato ebraico e democratico. In questo senso, non è saggio per Israele intraprendere azioni che rendano quel risultato più difficile, come la crescita degli insediamenti ebraici al di là della barriera di sicurezza nel cuore delle zone dove vive gran parte della popolazione palestinese.

Israele ha fatto bene a ritirarsi dalla striscia di Gaza, nonostante le conseguenze militari del ritiro, perché gli insediamenti ebraici che vi si trovavano erano diventati troppo onerosi da difendere, in una zona su cui oltretutto Israele non avanza rivendicazioni storiche e la cui occupazione stava diventando una palude controproducente.

D’altra parte, al momento Israele non può effettuare un ritiro analogo dalla Cisgiordania perché le conseguenze militari della nascita di un altro stato arabo fallimentare a ridosso delle aree più popolate di Israele sarebbero troppo pesanti.

Israele ha ragione di reclamare una sua presenza militare nella valle del Giordano e un congruo periodo di smilitarizzazione, nel quadro di un futuro ritiro dalla Cisgiordania.

La comunità internazionale sbaglia, sia sul piano etico che sul piano pratico, a concentrarsi quasi esclusivamente sul fare pressione su Israele affinché accetti le precondizioni imposte dai palestinesi per negoziare un accordo definitivo, anziché fare pressione sui palestinesi affinché avviino i negoziati senza precondizioni.

Soldati israeliani e ragazzini palestinesi, in Cisgiordania

Come con tutte le occupazioni militari nel corso della storia, anche in questa talvolta vengono commessi crimini e ingiustizie da parte degli occupanti, e bisogna affrontarle ogni volta che si verificano. D’altra parte, no: questi fatti e il fatto che l’occupazione continui non fanno per niente di Israele il “paese malvagio” che tanti, anche qui, amano dipingere. Certamente i palestinesi sotto autorità israeliana patiscono molto meno degli altri popoli sotto occupazione, compresi quelli iracheni e afgani sotto occupazione americana.

In conclusione, molte persone oggi considerano le bombe atomiche americane sul Giappone un atto “malvagio”, e può anche darsi che fra un millennio questo si dimostri il verdetto della storia. Ma se devo la mia esistenza a quell’atto “malvagio”, e sono convinto che i miei figli debbano la loro alla “malvagia” occupazione della Cisgiordania, beh credo di potermene fare una ragione.

Il mio unico contributo a questa discussione è che è fin troppo facile fare dichiarazioni semplici e perentorie su questioni complesse, soprattutto per quelli – come noi giornalisti – che sono condannati a scrivere, come è stato detto, “la prima bozza della storia”. Poi, naturalmente, la grande storia emetterà i suoi giudizi. Intanto, per dirla col noto proverbio solitamente attribuito ai nostri fratelli arabi, “i cani abbaiano, la carovana passa comunque”.

(Da: Jerusalem Post, 4.8.16)