Muover guerra fingendo la pace

E' illuminante la profezia che fece il ministro degli esteri siriano Farouk Shara nel gennaio 2000

Da un articolo di Barry Rubin

image_1375Per capire cosa succede oggi in Medio Oriente, e la percezione che l’occidente ha di questa regione, è illuminante ricordare una brillante profezia che fece il ministro degli esteri siriano Farouk Shara nel gennaio 2000, mentre teneva un discorso sulla strategia siriana nei negoziati con Israele che allora stavano per raggiungere il punto culminante. Poche settimane più tardi, il presidente Usa Bill Clinton incontrò in Svizzera il presidente siriano Hafez Assad. Clinton in quell’occasione offrì ad Assad la restituzione di tutte le alture del Golan in cambio della pace con Israele. Assad respinse l’offerta. Pochi mesi dopo, Assad morì e gli succedette il figlio Bashar, che da allora ha mantenuto un atteggiamento intransigente (anche se spesso è stato erroneamente detto il contrario).
La Siria e l’Olp non hanno cambiato la loro storica politica volta a perseguire l’eliminazione di Israele. Quello che hanno fatto, piuttosto, è stato cambiare la loro retorica circa quell’obiettivo. Nel 1967 gli stati arabi dichiaravano apertamente il loro rifiuto di negoziare con Israele, di fare la pace con Israele o di accettarne l’esistenza. Nel 1974 l’Olp adottò una strategia basata su due fasi: primo, ottenere uno stato palestinese; poi usare quello stato come base per conseguire la vittoria totale.
Fino agli Accordi di Oslo del 1993, comunque, l’Olp si limitò a promuovere questo piano solo a parole (d’altra parte, nei rapporti con gran parte dell’occidente era sufficiente anche una minima foglia di fico). Quell’anno invece Yasser Arafat passò ai fatti. Ma ci pensò poi il ministro Shara ad articolare pubblicamente il piano con grande chiarezza. Nel suo discorso del gennaio 2000 all’Unione degli scrittori siriani, Shara esordì con una nota pessimistica. Dopo la sconfitta nella guerra del 1967, disse, gli arabi sembravano “davvero messi alle corde e con sue sole alternative: accettare una pace che equivale a resa e capitolazione, cosa che non vorremmo mai; oppure respingere la pace ma senza un solido terreno su cui basare tale rifiuto”.
“Resa” significava qualunque compromesso di pace che garantisse l’esistenza di Israele quand’anche questi fosse disposto a pagare tale privilegio con la cessione dei territori conquistati nel ’67 e l’accettazione di uno stato palestinese indipendente. “Respingere la pace senza una solida base” significava semplicemente fare la figura di estremisti che predicano la guerra eterna contro Israele.
Per decenni gli stati arabi avevano pubblicamente sostenuto che non avrebbero mai fato la pace con Israele. Dopo che la fece l’Egitto alla fine degli anni ’70, tutti gli altri regimi cercarono di dimostrare che non erano traditori come Sadat. Poi Arafat firmò un accordo nel 1993-94, e la Giordana seguì a ruota col suo trattato di pace. La vecchia posizione non reggeva più; ormai era chiaro a tutti che, sul piano delle relazioni pubbliche, era disastrosa. Ed ecco le profetiche parole usate dal ministro Shara nel 2000, pochi giorni prima che la Siria respingesse l’idea di ottenere terra attraverso il processo di pace: “Se non avremo la nostra terra col processo di pace, ci guadagneremo l’opinione pubblica araba e mondiale, giacché Israele ha sempre sostenuto di essere per la pace e che gli arabi erano contro la pace… e sarà possibile penetrare il potente mondo ostile dei mass-media… La nostra posizione forte, solida e persistente, e la riaffermazione costante delle nostre rivendicazioni in modo convincente, sono destinati ad avere effetto”.
In altri termini, finché la parte araba respinge esplicitamente la pace, Israele avrà un vantaggio diplomatico e mediatico. Quel che bisogna fare, dunque, è dire che gli arabi sono pronti alla pace e contemporaneamente ribadire le rivendicazioni in “modo convincente”, fino a persuadere la comunità internazionale che la colpa del conflitto è di Israele che rifiuta tali rivendicazioni.
Quando Israele arrivò davvero a offrire praticamente tutto quello che gli arabi avevano sempre chiesto, vennero trovate nuove questioni per spiegare come mai gli arabi dicevano di no. Questioni come la richiesta palestinese di far entrare tutti i profughi (e loro discendenti) all’interno di Israele, che ne verrebbe minato dall’interno. E poi si possono sempre trovare minuscoli pezzetti di territorio dimenticato, come la pretesa di Hezbollah che Israele stia “occupando” una piccola striscia di Libano (le fattorie Shabaa) che tutti gli altri, Sira compresa, hanno sempre considerato territorio siriano. E come la pretesa siriana di riottenere una minuscola striscia di terra israeliana (lungo la costa nord-est del lago Kinneret), che la Siria aveva illegalmente occupato durante la guerra del 1948 e che oggi darebbe a Damasco la possibilità di avanzare rivendicazioni sulla principale riserva d’acqua di Israele. E poi c’è sempre il pretesto dei detenuti in Israele (quelli che hanno firmato la recente ondata di stragi terroristiche). Oppure i cavilli del linguaggio: Hamas ha riconosciuto il diritto di esistere di Israele? Beh forse, in un certo qual modo, implicitamente, lo ha lasciato intendere, se si legge tra le righe, e soprattutto se si ignorano tutte le affermazioni contrarie che i leader di Hamas continuano a fare in arabo.
“Con i mas-media è importante avere un argomento semplice e forte – diceva Shara nel 2000 – Noi vogliamo soltanto la nostra terra e i nostri diritti. Ora sono loro quelli in difficoltà, perché sono quelli che vogliono tenere la terra”.
E così, sei anni dopo che Israele ha offerto di cedere alla Siria il territorio catturato nel ’67, si può convincere il mondo che Israele non ha mai offerto di farlo. E pochi mesi dopo che Israele si è ritirato dalla striscia di Gaza e ha proposto ampi ritiri dalla Cisgiordania, gran parte dei mass-media e dei governi occidentali sono convinti che il problema sia che Israele è ancora potenza occupante che non si ritira.
Nessuna meraviglia che Shara concludesse, nel 2000: “Così, in ogni caso, noi non perderemo”. Con i regimi arabi che insistono a dire che vogliono davvero la pace evitando nel frattempo di fare qualunque passo irreversibile in quella direzione, la diplomazia mondiale torna a battere la stessa strada. Anche dopo che Arafat e Assad nel 2000 hanno respinto la pace, basta che un leader arabo affermi di volere la pace, magari solo in inglese con parole contraddette da ciò viene detto in arabo, e l’onere della mancata svolta viene automaticamente addossato a Israele.
È l’equivalente diplomatico di quelle istruzioni sulle bottigliette di shampoo che dicono di ripetere l’applicazione anche se un solo risciacquo è sufficiente. Serve a raddoppiare automaticamente il consumo del prodotto: un piccolo artificio linguistico che fa tutta la differenza.

(Da: Jerusalem Post, 18.09.06)

Nella foto in alto: Il tetto di un’aula del Sapir College (sud Israele) sfondato giovedì da un missile Qassam palestinese lanciato dalla striscia di Gaza