Nel club dei paesi liberi e sviluppati

Quando Israele è giudicato con criteri oggettivi, si rivela l’inconsistenza delle campagne diffamatorie.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2821Il ministro delle finanze israeliano Yuval Steinitz lo ha salutato come “un traguardo storico”. Il primo ministro Benjamin Netanyahu lo ha descritto come “un segno particolarmente positivo della solida posizione internazionale di Israele”, sottolineando che anche uno solo dei trentun paesi membri “avrebbe potuto votare no e porre il veto al nostro ingresso”.
Si riferivano al voto unanime con cui lunedì, al Château de la Muette di Parigi, i trentuno stati membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) hanno accolto Israele nelle loro file, insieme ad Estonia e Slovenia.
Si è trattato senza dubbio di un successo per l’assediato stato ebraico. Fino all’ultimo c’era la preoccupazione che paesi come la Svizzera, la Turchia, la Norvegia, la Gran Bretagna e/o l’Irlanda potessero silurare l’approvazione: paesi che avevano criticato la richiesta di Israele di fornire i dati economici relativi a Gerusalemme est, alle alture del Golan e agli insediamenti in Giudea e Samaria (Cisgiordania) come parte integrante dell’economia israeliana. Inoltre, il primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad aveva condotto una campagna contro la candidatura di Israele, per nulla turbato dal grave danno che così facendo poteva arrecare ai rapporti con Israele proprio nel memento in cui stanno faticosamente iniziando i colloqui di prossimità (indiretti). Il fatto stesso che il ben inserito Fayyad, un ex economista del Fondo Monetario Internazionale, non sia riuscito a sabotare l’ingresso di Israele nell’OCSE costituisce un successo per Israele e per la pura e semplice ragionevolezza.
Gli straordinari risultati di Israele vengono meglio apprezzati quando sono esaminati da un forum di paesi altamente sviluppati e impegnati per la democrazia, il liberalismo, l’uguaglianza delle opportunità e l’economia di mercato, utilizzando oggettivi criteri di valutazione socio-economica. Al contrario, le travisate rappresentazioni dell’“entità sionista” come uno stato repressivo, razzista e da apartheid appartengono al mondo delle favole della propaganda piena di odio, e al robusto vittimismo palestinese.
Israele è stato giudicato secondo diciotto parametri fissati dall’OCSE, un’organizzazione che ha le sue radici nell’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OEEC), fondata nel 1948 per amministrare il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa post-bellica. Grazie ad anni di disciplina fiscale, il debito pubblico di Israele si stima che scenderà nei prossimi anni intorno al 70%, contro il 90% della Germania, il 96% della Francia, il 100% della Gran Bretagna, il 110% degli Stati Uniti, il 130% dell’Italia e un enorme 250% del Giappone. La Grecia, con un debito stimato a 156,2 miliardi di euro, insieme a Spagna, Portogallo e Irlanda, le quattro economie più deboli dell’Europa, devono tutti affrontare profonde riforme economiche. L’inflazione in Israele nell’ultimo decennio è solo la metà della media OCSE, e la crescita del Prodotto interno lordo è stata in costante aumento (ad una media annuale del 5,5% fra il 2003 e il 2008). Inoltre, Israele ha modificato la sua legislazione anti-riciclaggio e in materia di proprietà intellettuale per rispondere ai criteri OCSE.
Certo, c’è ancora molto da fare. È apparso evidente lo scorso gennaio, quando il segretario generale dell’OCSE, il messicano Angel Gurría, un amico di Israele e amico personale del ministro Steinitz, ha presentato l’indagine economica dell’Organizzazione su Israele. Gurría criticava il fatto che un quinto della popolazione israeliana risulta sotto la soglia di povertà, cifra assai più elevata della media OCSE (11%). Circa metà di tutti i cittadini arabi d’Israele e il 60% della popolazione ebraica “haredi” (ultraortodossi) sono classificati come poveri, così come il 23% della popolazione anziana. A causa del basso indice di impiego delle comunità araba e ultrarossa, il tasso di partecipazione al mercato del lavoro risulta basso: solo il 59% contro una media OCSE del 67%. E poi risultano troppi gli ostacoli burocratici che inibiscono la crescita delle imprese.
Ma tutto questo, aspetti positivi e aspetti negativi, è sul tavolo sotto gli occhi di tutti. Questa trasparenza, e questo esame esterno che sprona all’eccellenza, è di per sé uno dei benefici di far parte dell’OCSE. Gli investitori istituzionali, consapevoli del dinamismo dell’economia d’Israele, negli anni scorsi hanno fatto la fila per acquistare i bond israeliani. Forse lo faranno ancora di più adesso, grazie al nuovo status di Israele come membro dell’OCSE.
Non può sfuggire il paradosso del momento in cui cade questo “storico traguardo”. Per anni Israele ha cercato di entrare nell’OCSE e alla fine la cosa si verifica proprio in un momento in cui l’Europa, il cuore dell’OCSE, versa nel caos economico, con la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo e forse l’Italia che rischiano di minare la stabilità economica dell’Unione Europea.
Israele nel frattempo ha affrontato enormi sfide, nel corso della sua ancora breve esistenza: dall’assorbimento di centinaia di migliaia di immigrati provenienti da paesi islamici sottosviluppati negli anni ’50 e ’60 e dall’ex Unione Sovietica e dall’Etiopia negli anni ’80 e ’90, alla costatante minaccia alla sicurezza, che drena una percentuale sproporzionatamente grande del bilancio annuale, sino alle ricorrenti campagne anti-sioniste internazionali per la sua delegittimazione. Malgrado ciò è riuscito a diventare una delle economie più vivaci del mondo. Il grande, prestigioso club dell’OCSE potrebe persino avere una o due cose da imparare dal suo nuovo membro.

(Da: Jerusalem Post, 11.5.10)