Nell’era di Abu Mazen

Cè già chi scrive Arafat poteva porre fine al terrorismo ma non voleva, Abu Mazen vorrebbe ma non può. E sembra di tornare indietro di anni.

M. Paganoni per Nes n. 1, anno 17 - gennaio 2005

image_5329 gennaio, elezioni presidenziali palestinesi: il primo autentico esercizio di democrazia nel mondo arabo, forse “la scossa di cui avevano bisogno i regimi totalitari del Medio Oriente – come dice Nagi al-Ghatrifi, riformista egiziano – l’esempio di cui avevano bisogno i dissidenti che si battono per la democrazia rifiutando la paternalistica convinzione che nella società araba essa sia prematura”.
13 gennaio, doppio attentato suicida al valico di Karni fra Israele e striscia di Gaza (che serve anche per il passaggio di aiuti umanitari): è la prima strage di israeliani nell’era di Abu Mazen. Rivendicazione di Hamas e delle Brigate Martiri di Al Aqsa, affiliate a Fatah, la fazione di Abu Mazen.
E pare già di tornare indietro, agli anni in cui si scommetteva sul processo di pace interpretando ogni atto terroristico come un “attentato contro la pace” (invece erano contro gli israeliani, tant’è vero che capitavano sia quando il processo di pace avanzava, sia quando era fermo), o come un mezzo per “mettere in difficoltà Yasser Arafat” (che invece, oggi sappiamo, istigava e finanziava lo stesso terrorismo che tiepidamente deplorava).
Le elezioni palestinesi che hanno portato Abu Mazen alla presidenza dell’Autorità Palestinese sono state probabilmente al di sotto degli standard che gli osservatori hanno voluto accreditare. Secondo il ministro israeliano ed ex dissidente sovietico Natan Sharansky, un voto veramente libero può aver luogo solo in società libere, dove ognuno sia libero di esprimere e contestare qualunque opinione, e questo non è certo il caso dell’Autorità Palestinese. La macchina amministrativa e i mass-media palestinesi hanno fatto smaccata campagna a favore del presidente in pectore. Sono sorti dubbi di irregolarità sui registri elettorali (non si è neppure capita bene la percentuale definitiva dei votanti), sull’allungamento imprevisto dell’orario di voto ecc. Elezioni certamente non immacolate, dunque, ma autentiche. Tanto autentiche che Abu Mazen ha vinto, ma non stravinto. Eletto con 483.039 voti (62,32%), dovrà comunque tener conto dei 153.516 voti (19,80%) andati al primo dei non eletti, l’intransigente laico Mustafa Barghouti. Gli elettori sapevano che avrebbe perso, ma lo hanno votato per temperare la vittoria di Abu Mazen, considerato più incline al negoziato: un uso politicamente sofisticato del proprio voto, nulla a che vedere con le elezioni plebiscitarie abituali nella società araba.
Abu Mazen dovrà poi tener conto di quel 30-35% di astenuti. Nel 1996 il non voto si era fermato al 10%, ma questa volta i jihadisti hanno decretato il boicottaggio, e dunque una frazione di astenuti (non facile da quantificare) è verosimilmente da ascrivere a Hamas e Jihad Islamica.
Non basta. Nel suo stesso elettorato Abu Mazen dovrà tener presente che sono confluiti anche i voti di formazioni come Tanzim e Brigate Al Aqsa: gente che lo ha votato per “fedeltà di partito”, ma che rifiuta apertamente la posizione di Abu Mazen contro l’“intifada armata. “Il 62% di consensi per Abu Mazen – dice Khalil Shikaki, del Palestinian Center for Policy and Survey Research (Ha’aretz, 14.1.05) – non significa altrettanto appoggio alla sua idea di porre fine alla violenza contro Israele. L’opinione pubblica palestinese resta spaccata nel suo atteggiamento verso la violenza. Molti hanno votato per Abu Mazen anche se non rifiutano affatto la violenza”. Votandolo, i giovani capibanda di Jenin e di Gaza hanno in certo qual modo ipotecato la vittoria di Abu Mazen e, per chi avesse avuto la tentazione di minimizzare questo aspetto, puntuale è giunto l’attentato a Karni.
Le dichiarazioni di Israele dopo l’attentato sembrano tratte di peso dai notiziari di quattro anni fa, quando i portavoce di Ehud Barak insistevano: “Questa è l’ora della verità per il leader palestinese, i suoi servizi di sicurezza non muovono un dito, se non agiscono dovremo farlo noi al posto loro”.
E così tornano gli interrogativi di sempre. Gli obiettivi di Abu Mazen, affermano tutti, sono gli stessi di Arafat (Stato a fianco di Israele, capitale a Gerusalemme, ritorno dei profughi): sono i mezzi che sono diversi. Ma erano davvero quelli gli obiettivi di Arafat? E, d’altra parte, la demagogia del ritorno è compatibile con un’intesa negoziata? Abu Mazen è semplicemente un “Arafat in doppiopetto”, oppure è il vero leader della svolta, costretto a fare i conti con quanto resta dell’intransigenza palestinese?
Su Ha’aretz c’è già chi scrive: “Arafat poteva porre fine al terrorismo ma non voleva, Abu Mazen vorrebbe ma non può” (Arnon Regular, 14.1.05). Eppure, esattamente questo si diceva di Arafat almeno fino allo scoppio della seconda intifada (e non manca chi ha continuato a ripeterlo fino ad oggi).
Già si proclama il nuovo assioma dell’equazione israelo-palestinese: per aiutare la pace bisogna aiutare Abu Mazen. Sì, ma come? Se Abu Mazen presidente significa tornare alle “pressioni” su Israele perché “in nome della pace” incassi il terrorismo senza reagire, rinunci a “gesti unilaterali”, abbandoni il “muro” ecc., il rischio è quello di infilarsi nello stesso vicolo cieco degli anni ’90. “Fin dai primi giorni della seconda intifada – scriveva sull’International Herald Tribune nel lontano dicembre 2001 Yoel Esteron, direttore di Ha’aretz – gli europei hanno rovinato ogni possibilità di porre fine alle violenze continuando ad adulare Arafat e a riceverlo con tutti gli onori. Questo comportamento ha solo rafforzato la sua convinzione di potersi permettere qualunque cosa senza mai pagare pegno”.
“Se invece questa volta la comunità internazionale desidera davvero la fine del terrorismo e il successo del processo democratico palestinese – scrive adesso il Jerusalem Post (11.1.05) – allora dovrà cambiare atteggiamento. Il sostegno finanziario alla nuova/vecchia dirigenza palestinese deve essere strettamente vincolato sia alla fine del terrorismo e delle violenze, che alle riforme democratiche. Condizionare i negoziati alla lotta al terrorismo – continua l’editoriale – è necessario ma non sufficiente, giacché il leader palestinese potrebbe sempre scegliere (come il suo predecessore) nessun negoziato e nessuna lotta al terrorismo, nella speranza che alla fine Israele sia costretto a negoziare comunque. L’aiuto finanziario, dal quale dipende completamente l’Autorità Palestinese, deve essere condizionato alla costruzione della democrazia, un obiettivo che troppo spesso viene trascurato. Un cessate il fuoco, per quanto benvenuto, non potrebbe mai durare sulle sabbie mobili di un regime dispotico e arbitrario”.
Sulla scorta dell’esperienza degli ultimi dodici anni, questo appare il momento in cui bisogna esigere di più, non di meno. Come peraltro afferma lo stesso Abu Mazen quando dice, nel giorno del suo insediamento ufficiale (15.1.01): “Non possiamo ignorare le nostre questioni interne, con il pretesto che siamo sotto occupazione”.
Scrive ancora Sharansky, uno che di democratizzazione se ne intende (Wall Street Journal, 11.1.05): “Se gli Stati Uniti chiariranno bene che appoggeranno Abu Mazen solo nella misura in cui questi si dedicherà ad allargare le libertà all’interno della società palestinese più che ad alimentare risentimenti, allora le chance che egli diventi un autentico interlocutore aumenteranno immensamente. Viceversa, la semplice sostituzione di Arafat con Abu Mazen non trasformerà la fallita formula di Oslo in un successo. Se Abu Mazen si rivelerà un partner volonteroso in questo sforzo, allora il suo governo dovrà ricevere legittimazione, aiuti finanziari, territorio e sostegno per l’indipendenza. Se invece non si dimostrerà tale, tutto l’appoggio dovrà essere bloccato. Il mondo libero aiuterà Abu Mazen a fare le scelte giuste per la pace solo legando strettamente la propria posizione verso l’Autorità Palestinese all’allargamento delle libertà all’interno della società palestinese: libertà di dissenso, libertà economiche, libertà di riabilitare i profughi, libertà dall’odio”.