Netanyahu è andato dritto al cuore del problema

Se hanno da esservi due stati per due popoli, e lo stato per il popolo palestinese è riconosciuto anche dal Likud, logica vuole che ora i palestinesi riconoscano lo stato per il popolo ebraico

di Marco Paganoni, luglio 2009

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Tutte le mappe della pubblicistica nazionalista palestinese relativa al cosiddetto diritto al ritorno (simbolicamente rappresentato dalla chiave) illustrano senza reticenze l’obiettivo di occupare totalmente Israele

Il Medio Oriente è prodigo di date storiche presto dimenticate, piani che prendono polvere nei cassetti, pronunciamenti diplomatici che lasciano il tempo che trovano. Tuttavia può darsi che i due discorsi dello scorso giugno – quello del presidente Usa Barack Obama di giovedì 4 all’Università del Cairo e quello del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di domenica 14 all’Università Bar Ilan – non finiscano solo in una nota a pie’ pagina dei libri di storia. E la loro rilevanza non sarà misurata solo sui contenuti, ma anche sulle reazioni che hanno suscitato. Il discorso di Obama, in particolare, per quelle che non ha suscitato. “Settimane dopo la performance oratoria di Obama – ha fatto notare Yoel Marcus (Haaretz, 23.06.09) – gli arabi non hanno ancora battuto ciglio, perché sostanzialmente interpretano il discorso del presidente come rivolto tutto e soltanto a Israele”. Viceversa, Netanyahu ha sudato sette camice, ma “almeno ci ha provato” e ha risposto con un discorso, continua Marcus, “attentamente ponderato e ben formulato, con cui è andato dritto al cuore del problema: dicendosi disposto a riconoscere uno stato palestinese, purché smilitarizzato, in cambio del riconoscimento di Israele come stato nazionale del popolo ebraico, ha essenzialmente riconosciuto il principio due popoli-due stati”.
Prima di farlo, tuttavia, ha colto l’occasione per rintuzzare l’alleato là dove il discorso di Obama era risultato tutt’altro che ben ponderato. La Shoà, ha ricordato Netanyahu, non è la ragione per cui è stato creato lo stato ebraico. È vero il contrario: se Israele fosse già esistito, come da tempo era stato preconizzato e promesso, è la Shoà che sarebbe stata ben diversa. “Ciò che la Shoà ha dimostrato – aveva commentato il Jerusalem Post (8.06.09) – è che il mondo è un posto troppo pericoloso perché gli ebrei possano viverci senza un loro stato indipendente e senza la possibilità di difendere se stessi. Ma questo noi sionisti lo sostenevamo già molto tempo prima che Hitler salisse al potere. La legittimità di Israele è radicata innanzitutto nel legame storico fra popolo ebraico e terra d’Israele. Quando Obama suggerisce che i diritti degli ebrei dipendano essenzialmente dalla Shoà senza ricordare che quei diritti in realtà sono molto più profondi e antichi, di fatto condanna al fallimento le prospettive di pace: infatti, perché mai gli arabi dovrebbero rassegnarsi alla presenza di uno stato ebraico in questa regione se lo stesso presidente americano insinua che Israele è stato istituito per espiare i crimini dell’Europa?”
Detto questo, Netanyahu la sua offerta l’ha fatta. “Come allievo di Zeev Jabotinsky ha innescato una rivoluzione concettuale”, nota Ari Shavit (Ha’aretz, 18.06.09), l’editorialista di sinistra che col suo pezzo “Sette parole per aprire la strada alla pace” (Ha’aretz, 11.06.09) aveva anticipato di alcuni giorni lo slogan di Netanyahu: “una Palestina smilitarizzata accanto allo stato ebraico d’Israele”. “Chiunque accetti queste parole – aveva scritto Shavit – afferma con ciò stesso che desidera porre fine al conflitto israelo-palestinese in modo realistico e responsabile. Chiunque le respinga, rivela d’essere in realtà ostile a Israele, e di non volerne garantire né la sicurezza né la stessa esistenza”. L’errore diplomatico dei predecessori di Netanyahu, argomentava Shavit, fu quello di accettare la prospettiva di uno stato palestinese “dando per scontato che sarebbe stato smilitarizzato e che Israele sarebbe stato ebraico, ma negli affari di stato nulla deve mai essere dato per scontato”. E concludeva: “Se i nostri vicini rifiuteranno la proposta di istituire in questi termini due stati nazionali, allora tutti sapranno qual è il motivo per cui veniamo uccisi e siamo costretti a uccidere”.
E qual è stata, appunto, la reazione dei vicini? Il giornalista arabo israeliano Khaled Abu Toameh l’ha definita “isterica, precipitosa ed avventata”, un vero e proprio boomerang che “mostra i palestinesi nella parte di coloro che respingono la pace” (Jerusalem Post, 16.06.09). “Ancor prima che il discorso fosse terminato – ricorda Abu Toameh – esponenti e portavoce dell’Autorità Palestinese si sono precipitati a dichiarare in ogni sede possibile il loro totale rifiuto delle idee di Netanyahu. Alcuni si sono spinti fino agli insulti personali, dando a Netanyahu del bugiardo, impostore e mascalzone. Altri hanno lasciato intendere che, a causa della sua posizione, i palestinesi potrebbero far ricorso a una nuova intifada”. Insomma una reazione ben sintetizzata da Saeb Erekat quando ha dichiarato: “Neanche fra mille anni riconosceremo uno stato ebraico”. Secco il commento di Yoel Marcus: “Un mulo resta sempre un mulo”.
Continua Abu Toameh: “Respingendo del tutto l’offerta di uno stato smilitarizzato e la richiesta di riconoscere Israele come stato ebraico, la dirigenza palestinese si è arrampicata su un albero dal quale farà molta fatica a scendere. Ma che importanza ha se il futuro stato palestinese non avrà un esercito e un’aviazione militare? Perché mai la Palestina dovrebbe aver bisogno di carri armati e cacciabombardieri? Forse che i palestinesi non hanno già abbastanza forze di sicurezza, milizie armate e arsenali pieni di razzi e munizioni?” Non è nemmeno chiaro perché arabi e palestinesi si siano tanto stupiti di sentir parlare di stato smilitarizzato e di natura ebraica di Israele. Già il presidente Bill Clinton aveva menzionato l’idea di uno stato smilitarizzato, e la definizione di Israele come stato nazionale del popolo ebraico non è certo muova: la risoluzione Onu 181 del 1947 per la spartizione del Mandato Britannico parlava espressamente di un “Arab State” e di un “Jewish State”. Vale la pena ricordare che l’art. 1 della Carta Nazionale dell’Olp recita: “La Palestina è la patria del popolo arabo palestinese, è parte indivisibile della grande patria araba e il popolo palestinese è parte integrante della nazione araba”. Ad Algeri nel novembre 1988 il Consiglio Nazionale Palestinese riconosceva la 181 e proclamava l’indipendenza (virtuale) dello “stato arabo” di Palestina. Se hanno da esservi due stati per due popoli, e lo stato per il popolo arabo palestinese è riconosciuto da tutti, anche dal Likud, logica vuole che ora i palestinesi riconoscano uno stato per il popolo ebraico. Altrimenti di che cosa stiamo parlando?
Ma il rifiuto di riconoscere Israele come stato ebraico si spiegherebbe col rifiuto di “abbandonare in una condizione di ufficiale inferiorità” gli arabi israeliani. Come dire che il riconoscimento della Repubblica Italiana significa abbandonare in condizione di ufficiale inferiorità i tedeschi del Sudtirolo. Quella degli arabi israeliani, osserva Abu Toameh “è una questione che va risolta nel dialogo fra l’establishment israeliano e le sue minoranze interne. In fondo i palestinesi si battono per separarsi da Israele, mentre gli arabi israeliani si battono per la piena integrazione nella società israeliana”.
Concorda Evelyn Gordon (Jerusalem Post, 24.06.09): “Israele è già uno stato ebraico; il riconoscimento palestinese di questa realtà non può in alcun modo intaccare la situazione attuale degli arabi israeliani, né impedirebbe loro di fare uso di tutti gli strumenti democratici. In verità, l’unico effetto che potrebbe avere il riconoscimento palestinese del carattere ebraico di Israele sarebbe di costringerli ad abbandonare l’illusione di poterlo un giorno eliminare mediante una immigrazione di massa di palestinesi”: il cosiddetto diritto al ritorno. Insistendo con questa rivendicazione, osserva Gordon, “sono i palestinesi, e non Israele, che hanno gettato sul tavolo negoziale il tema del carattere ebraico di Israele”.
E non solo i palestinesi. “Gli stati arabi – scrive Guy Bechor (YnetNews, 22.06.09) – non rinunceranno mai alla pretesa di spedire i profughi in Palestina. L’establishment arabo vuole realizzare il diritto al ritorno non già per il bene dei palestinesi, che sono anzi odiati in gran parte dei paesi arabi, quanto per indebolire Israele, distruggerlo dall’interno, soffocarlo sotto un mare di palestinesi ‘ritornati’. Non hanno tenuto vivo il problema dei profughi per sessant’anni per dovervi rinunciare adesso. La nozione di ‘ritorno’ è diventata un articolo di fede in base al quale ci si aspetta che i profughi tornino, non in Israele, quanto piuttosto al 1948”. Questa è la “pace giusta” del lessico arabo: cancellare l’umiliazione, riavvolgere il nastro della storia.
La “precipitosa e drastica reazione al discorso di Netanyahu – scrive R. A. Segre (Giornale, 21.06.09) – ha dimostrato quello che si era sempre saputo, ma mai detto: che lo scopo dello stato palestinese non è la restituzione del territorio occupato da Israele nel 1967, ma la scomparsa dello stato israeliano”. Conclude Shavit (Haaretz, 18.06.09): “Netanyahu ha lanciato una sfida senza precedenti alla nazione palestinese e alla comunità internazionale. Dopo il discorso alla Bar Ilan la questione sul tappeto non è quando e dove gli israeliani si ritireranno; la questione è: cosa faranno palestinesi, arabi, europei e americani per garantire che il grande ritiro israeliano non finisca in tragedia?”