Nipotini di Arafat

Una società che per decenni glorifica la propria violenza non può che diventarne vittima

Da un editoriale del Wall Street Journal

image_1738Decine e decine di palestinesi sono stati uccisi la scorsa settimana a Gaza nel quadro degli scontri armati intestini fra lealisti del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), di Fatah, e lealisti del primo ministro palestinese Ismail Haniyeh, di Hamas. Come per un riflesso condizionato, ci sono volute solo 24 ore perché gli esperti di mezzo mondo decidessero di addossare tutta la colpa di queste violenze a Israele e al presidente Bush.
Stiamo parlando di quell’Israele che ha smantellato tutti i suoi insediamenti dalla striscia di Gaza nell’agosto 2005: una concessione unilaterale per la quale non ha chiesto, né avuto, nulla in cambio. E stiamo parlando di quel presidente americano che, in un discorso storico tenuto esattamente cinque anni fa, chiedeva ai palestinesi di “eleggere nuovi leader che non siano compromessi col terrorismo”. Se i palestinesi l’avessero fatto, oggi potrebbero vivere in un loro stato pacifico e indipendente. Invece, con le elezioni parlamentari del gennaio 2006, hanno liberamente consegnato le redini del governo a Hamas. Quello che accade oggi è la conseguenza di quella scelta: una loro scelta.
Quel risultato elettorale, tuttavia, non veniva fuori dal niente. Era la conseguenza del culto della violenza che ha caratterizzato il movimento palestinese per grandissima parte della sua storia e che è stato tollerato e spesso celebrato dalla stessa comunità internazionale. Se oggi i palestinesi sono convinti di poter perseguire i loro interessi interni con la violenza, nessuno dovrebbe sorprendersi. È da quarant’anni che ottengono risultati ricorrendo fucile.
Nel 1972, terroristi palestinesi massacrarono gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco. Eppure, solo due anni dopo Yasser Arafat veniva invitato a parlare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: il primo leader non governativo insignito di tale onore.
Nel 1970 lo stesso Arafat aveva tentato di rovesciare re Hussein di Giordania e pochi anni dopo tentò di fare la stessa cosa in Libano. Eppure, nel 1980, con la Dichiarazione di Venezia la Comunità Europea riconosceva l’Olp di Arafat come legittimo interlocutore negoziale (mentre abbandonava al suo destino, senza una parola di solidarietà, il presidente egiziano Sadat che aveva fatto la pace con Israele ottenendo la restituzione del Sinai).
Nel 1973 la National Security Agency americana aveva intercettato la telefonata con cui Arafat ordinava ai terroristi dell’Olp di assassinare Cleo Noel, ambasciatore Usa in Sudan, e il suo vice George Curtis Moore, presi in ostaggio. Eppure, nel 1993, Arafat venne ricevuto con tutti gli onori alla Casa Bianca per la firma degli Accordi di Oslo con Israele.
Quello stesso anno, il National Criminal Intelligence Service britannico riferiva che l’Olp si era arricchita con “estorsioni, ricatti, traffico illegale d’armi e droga, frodi e riciclaggio di denaro sporco”. Eppure, negli anni immediatamente successivi, l’Autorità Palestinese divenne il maggior beneficiario al mondo pro capite di aiuti finanziari internazionali.
Nel 1996, dopo che aveva formalmente rinunciato al terrorismo con gli Accordi di Oslo, durante un comizio a Gaza Arafat dichiarò: “Noi ci sentiamo obbligati verso tutti i martiri che sono morti per la causa di Gerusalemme, a partire da Ahmed Musa fino all’ultimo martire, Yihye Ayyash”. Per la cronaca, Ahmed Musa è considerato il primo terrorista Olp caduto nel 1965; Yihye Ayyash, di Hamas, è stato la mente di una serie di attentati suicidi che hanno mietuto decine di vittime fra i civili israeliani nei primi anni ‘90. Eppure l’amministrazione Clinton continuò a fingere che Arafat fosse un alleato nella lotta contro Hamas. Poi, nel 2000, Arafat respinse l’offerta israeliana di uno stato indipendente patrocinata dal presidente Clinton, scatenando invece una sanguinosa intifada che provocò 1.000 morti israeliani e 3.000 palestinesi.
Nel 2005, pochi mesi dopo la morte di Arafat, Israele sgomberò tutti i suoi insediamenti e ritirò tutte le sue forze armate dalla striscia di Gaza. I palestinesi hanno sfruttato questa opportunità per intensificare i lanci di razzi su bersagli civili all’interno di Israele.
Il mese scorso, i servizi di sicurezza israeliani hanno arrestato due donne di Gaza, una delle quali incinta, che avevano progettato di entrare in Israele col pretesto di cure mediche per farsi esplodere nelle città israeliane. Eppure, quello stesso mese, la Banca Mondiale diffondeva un rapporto in cui accusa Israele di limitare troppo la libertà di movimento dei palestinesi.
Oggi, a quanto pare, Hamas ha preso con la forza il pieno controllo della striscia di Gaza e del confine con l’Egitto. E, secondo i testimoni, si abbandona a violente vendette contro il personale della Sicurezza Preventiva palestinese. (…) Noi non pretendiamo di sapere come tutto questo andrà finire. Giovedì scorso Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha sciolto il governo palestinese e dichiarato lo stato s’emergenza, anche se non sembra che sia in grado di modificare il corso degli eventi a Gaza. Israele in teoria potrebbe intervenire, così come l’Egitto, ed entrambi avrebbero forti ragioni per impedire l’emergere ai loro confini di un Hamastan strettamente legato all’Iran. Ma nessuno dei due desidera restare invischiato nei fanatismi e nelle lotte fra clan della striscia di Gaza.
Nello stesso tempo, aumenteranno le pressioni su Israele e sugli Stati Uniti perché accettino il dominio di Hamas e avviino negoziati con i suoi leader. Secondo questo modo di ragionare, l’amministrazione Bush non può invocare la democrazia per i palestinesi e poi rifiutarsi di riconoscere i risultati di elezioni democratiche. A parte il fatto che Bush non aveva semplicemente chiesto elezioni (aveva chiesto ai palestinesi di eleggere leader non compromessi col terrorismo), ma poi: ha senso negoziare con un gruppo che si dà all’assassinio dei suoi stessi fratelli palestinesi quasi con la stessa facilità con cui si dà all’assassinio di civili israeliani? E che cosa si dovrebbe negoziare? Lo scenario migliore – una sospensione delle ostilità in cambio della ripresa dei finanziamenti internazionali – non farebbe altro che dare a Hamas tempo e denaro per consolidare il suo controllo e ricostituire i suoi arsenali in vista di futuri attacchi terroristici.
Ma soprattutto, l’ultima cosa di cui hanno bisogno i palestinesi è un’ulteriore conferma da parte del resto del mondo che la violenza, che essi oggi usano in modo così indiscriminato, funziona.
La lezione più importante, qui, è che una società che ha passato gli ultimi dieci anni a glorificare gli attentati suicidi non può che diventare vittima dei propri stessi impulsi di morte. Questo non è frutto dell’appello di Bush per una responsabilità democratica. È piuttosto l’amaro frutto dei decenni di dittatura e di terrorismo intesi come arte di governo che Yasser Arafat ha inculcato nella società palestinese.

(Da: Wall Street Journal, 16.06.07)