«Noi arabi d’Israele dobbiamo decidere cosa siamo»

«Dobbiamo abbandonare la demagogia dell’odio e integrarci come eguali tra eguali»

Di Ali Zahalka

Manifestazione di arabi israeliani contro lo stato d’Israele

Avigdor Lieberman sta portando avanti l’idea di trasferire una parte delle zone arabe d’Israele allo stato palestinese, se e quando verrà istituito. A coloro che su questo lo attaccano, lui risponde: “Forse che gli arabi di quelle zone sono improvvisamente diventati parte integrante dello stato di Israele? Improvvisamente Herzl è diventato il loro eroe nazionale e la Hatikva il loro inno prediletto?”.

Ebbene, questo problema ha due aspetti: uno è illusorio, ed è il piano di Lieberman; l’altro è molto serio, ed il processo di integrazione degli arabi israeliani nella vita dello stato.

Da anni gli arabi israeliani vivono in una situazione di disuguaglianza e svantaggio. Non è una scoperta né una novità, e molto di quel che è stato scritto su questo conferma tale stato di cose e indica le modalità di intervento per porvi rimedio. Noi arabi d’Israele siamo parecchio indietro rispetto ai nostri concittadini ebrei in fatto di sviluppo delle nostre comunità, opportunità di lavoro, istruzione: praticamente in tutti i parametri di una normale vita umana secondo gli standard del mondo occidentale. È una situazione che ha alle spalle una lunga storia, e non è questo il luogo per analizzarla e discuterla. È certamente inutile piangere sul latte versato, e bisogna piuttosto vedere in che modo cambiare questa triste realtà. Un cambiamento che non è solo necessario per la popolazione di minoranza, ma è anche di vitale importanza per l’intero stato di Israele: un 20% della popolazione che non si guadagna da vivere adeguatamente è anche un onere per la parte ebraica della popolazione, e questo deve essere cambiato a vantaggio di tutti.

Ma prima di rivolgermi alle istituzioni governative, che naturalmente sono gestite per lo più dalla maggioranza ebraica, vorrei rivolgermi al pubblico arabo israeliano. Come possiamo sorprenderci dei vari Lieberman che vogliono trasferire le nostre città al futuro stato palestinese? Gli ebrei giustamente ci chiedono: “Perché mai volete restare da questa parte del confine, con tutte le vostre espressioni di odio e di ostilità verso questo stato? Non siete per nulla israeliani, siete palestinesi: è così che vi definite voi stessi, in ogni possibile modo e occasione, e dunque dovreste essere cittadini del (futuro) stato di Palestina”.

In realtà siano noi stessi i primi a fornire argomenti a Lieberman e soci. Poi improvvisamente, al momento della verità, ci aggrappiamo alla nostra cittadinanza israeliana. Dobbiamo decidere cosa siamo.

Salim Joubran, arabo israeliano, giudice della Corte Suprema

Salim Joubran, arabo israeliano, giudice della Corte Suprema

Il mio suggerimento è che quelli di noi che si considerano cittadini dello stato d’Israele – lo stato nazionale del popolo ebraico dove noi siamo (è un dato di fatto) una minoranza – comincino ad agire da cittadini. Questo significa che la nostra leadership si prenda cura dei problemi e degli interessi di noi arabi israeliani; che abbandoni la demagogia dell’odio per passare a parlarsi alla pari, da cittadini evoluti. E che noi, l’intera opinione pubblica araba israeliana, ci diamo da fare per dotarci di una leadership che promuova concretamente la nostra piena integrazione civile. E dovremmo definirci coerentemente “cittadini arabi d’Israele”, giacché questo dovrebbe essere il nostro primo segno di identificazione: come gli ebrei degli Stati Uniti, che sono prima di tutto cittadini americani e solo poi cittadini associati (non sempre e non tutti) allo stato d’Israele.

Integrazione civile non vuol dire perdere la nostra identità storica e nazionale. Siamo una comunità araba il cui patrimonio è diverso dal patrimonio ebraico: Herzl, la Hatikva e il risorgimento della nazionalità ebraica non fanno parte del nostro patrimonio. E tuttavia, in quanto parte di uno stato ebraico democratico, dobbiamo integrarci come eguali tra eguali, e questo non sta ancora accadendo. Le istituzioni governative devono fare ancora molta strada per portarci ad avere pari diritti e piena integrazione, il mondo delle imprese deve aprire le sue porte a noi e così via. Noi, dal canto nostro, non andremo a far parte dell’Autorità Palestinese o dello stato palestinese, ma qui, nello stato d’Israele, dobbiamo fare sino in fondo la nostra parte per il processo di integrazione.

(Da: YnetNews, 28.2.14)

“Finché siamo sotto occupazione, non importa come il paese viene chiamato”. Così Hany Abu-Assad (52 anni, regista arabo-israeliano candidato all’Oscar come miglior film straniero con Omar, girato a Nazareth, in Israele, la città dove vive) ha commentato il fatto che il suo film è stato qualificato come proveniente dalla “Palestina”. Abu-Assad  – che, come quasi tutti gli arabi israeliani, rifiuta l’idea che il confine del futuro stato palestinese inglobi le loro città e i loro villaggi – ha detto alla Associated Press che considera tutto Israele “sotto occupazione”. (Da: israele.net, 26.2.14)

Si veda anche:

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