Non abbiamo proprio bisogno di un altro fallimento

Obama deve spiegare cosa gli fa credere che oggi uno stato palestinese sarebbe fattibile; la destra israeliana deve capire che certe scelte portano alla fine dello stato ebraico

Ben-Dror Yemini

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

Due giorni dopo le elezioni israeliane, lo “Stato Islamico” (ISIS) ha compiuto attacchi suicidi in due moschee a Sana’a, capitale dello Yemen, uccidendo circa 150 persone. Il giorno prima, un ramo dell’ISIS aveva perpetrato un attacco terroristico in Tunisia uccidendo 23 persone, per lo più turisti. Negli stessi due giorni, sette persone venivano uccise in un attentato a Kathua, in India, e venivano scoperti 70 corpi a Damasak, in Nigeria. Chi ne ha sentito parlare? Nel corso di febbraio, in tutto il mondo 1.977 persone sono state assassinate da jihadisti soltanto in attentati terroristici. E mentre scrivo queste parole, giungono notizie di massacri in corso ad opera delle forze irachene-iraniane nella città di Tikrit, in Iraq. Questa volta sono musulmani sciiti che massacrano musulmani sunniti, dopo che i sunniti, guidati dall’ISIS, avevano massacrato gli sciiti nel giugno 2014. Il comandante delle forze attaccanti è il generale Qassem Soleimani, un mega-terrorista al comando della Brigata al-Quds del corpo d’élite iraniano Guardie Rivoluzionarie Islamiche. Soleimani sovrintende Hezbollah e Hamas nel quadro dei piani per la distruzione di Israele.

Non basta. In tutto il mondo musulmano, sempre più stati hanno cessato di essere stati. La Siria è andata in pezzi già da tempo. La Libia è frantumata, con una parte del paese sotto il controllo di un fronte islamico e la città di Derna nelle mani dell’ISIS. Intere parti della Nigeria sono abbandonate nelle mani di Boko Haram, un’altra propaggine della jihad. Analoga la situazione in Afghanistan e in alcune province pakistane. La Somalia è andata in pezzi parecchi anni fa. Nelle ultime settimane, anche lo Yemen è entrato nella lista. Jihadisti controllano parti della penisola egiziana del Sinai. E non si dimentichi il Libano, che subisce continui scoppi di violenza ed è ampiamente controllato da Hezbollah. Di fatto, quattro paesi e/o parti di paesi sono già sotto predominio iraniano: Siria, Libano, Iraq e Yemen. Anche in Giordania la calma è solo virtuale: delle vere elezioni vedrebbero l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani (ricordate l’Egitto del 2012-13?).

Il mondo musulmano sta vivendo uno sconvolgimento enorme. L’identità araba sta scomparendo. L’identità nazionale cade a pezzi. Si impongono le identità islamiche, tribali e settarie. Morte e distruzione raggiungono proporzioni monumentali. Musulmani stanno assassinando altri musulmani a centinaia di migliaia. Nessuno dei sanguinosi conflitti – tra sciiti e sunniti, tra sunniti e sciiti – ha a che fare con Israele o i palestinesi. La maggior parte di coloro che stanno perpetrando queste stragi non sa nemmeno dove si trovi Israele sulla carta geografica.

Bandiere palestinese e dell'ISIS

Bandiere palestinese e dell’ISIS

I palestinesi sono dentro fino al collo. Secondo uno studio condotto da un istituto di ricerca del Qatar, sono fra i primi in fatto di sostegno all’ISIS e all’applicazione della sharia. E come in ogni altro luogo dove l’estremismo islamista alza la testa, anche Hamas sta seminando morte e distruzione.

Per quanto possa sembrare paradossale, il posto più tranquillo in Medio Oriente è la Cisgiordania controllata da Israele. Pertanto, quando Obama parla di Israele come dell’origine del caos in Medio Oriente, sembra vivere in un mondo tutto suo. A causa di Israele? Come fa Obama ad arrivare a una conclusione del genere?

Ok, parliamo di cose serie. Con questo scenario ben presente, si può giudicare veramente fattibile la creazione oggi di uno stato palestinese? Secondo la tv ufficiale di Hamas, “cristiani, comunisti ed ebrei devono essere eliminati fino all’ultimo uomo”. Hamas gode del sostegno del 61% dei palestinesi. Anche supponendo che il sostegno palestinese a Hamas possa calare, comunque Hamas assumerà un atteggiamento violento contro i suoi avversari, interni ed esterni. Alcuni capi di Hamas parlano di “conquistare Roma e l’Andalusia”. Obama è in ascolto? Sa Obama che Hamas ha vinto le ultime elezioni? Gli è così difficile capire che uno stato palestinese significherebbe con ogni probabilità un altro stato jihadista e altro spargimento di sangue? Cosa gli dà l’illusione che uno stato palestinese diventerebbe un modello di stabilità? Dov’è che si vede stabilità sotto uno qualunque dei movimenti della jihad? Qassem Soleimani se ne starà zitto e buono mentre qui fiorisce la pace? E comunque, che tipo di accordo potrebbe essere raggiunto? C’è un leader palestinese – anche uno solo – che sia disposto ad accettare le proposte di pace avanzate da Obama, dagli ebrei pacifisti americani di J Street o dai sionisti di sinistra del Meretz? Dopo tutto, negli ultimi dieci-vent’anni i palestinesi hanno rifiutato ogni offerta di soluzione a due stati. Dunque, di quale accordo parla Obama?

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“Hanno compiuto un’altra atrocità… e il mondo pensa che dovremmo invitarli in uno stato ai nostri confini… Vi chiedo… può essere che noi siamo sani di mente e il resto del mondo è impazzito? Vi rispondo… sì”

La politica americana in Medio Oriente, in questi ultimi anni, è stata caratterizzata da una serie di fallimenti. Nello stesso tempo, l’amministrazione di Washington intensifica la sua controversia con Israele e rafforza la sua ricerca di collaborazione con il regime iraniano. Si tratta dello stesso Iran che sta sostenendo gli Houthi, i quali stanno spaccando lo Yemen dopo averne rovesciato il regime filo-americano. E mentre scrivo, le cose si stanno ulteriormente infiammando con attacchi aerei sauditi contro gli elementi sostenuti dall’Iran.

La pressione americana su Israele, dopo tutto, dà impulso all’intransigenza palestinese. Non promuoverà la pace; anzi, incoraggerà la radicalizzazione tra i palestinesi. Le stesse cose che stanno accadendo in Yemen, Siria, Libia, Iraq, Somalia e Nigeria potrebbero aver luogo anche in Cisgiordania.

Dunque, sì: ci vuole una rivalutazione: non abbiamo proprio bisogno di un altro fallimento. E questa rivalutazione deve avvenire sia a Washington che a Gerusalemme. Uno sguardo sobrio alla situazione porterà all’ovvia conclusione che, nelle attuali circostanze geopolitiche, parlare di uno stato palestinese, che rischia di trasformarsi in uno stato di Hamas, è un’illusione e dimostra un preoccupante scollegamento dalla realtà. Gli argomenti morali contro il controllo israeliano sulla Cisgiordania sono eccellenti. Una soluzione di pace è senz’altro necessaria. Ai palestinesi deve essere dato un orizzonte politico e di speranza, per mezzo di un accordo da attuare gradualmente e con cautela, in linea con le mutevoli circostanze. Ma per ora, lo stato palestinese è una ricetta sicura per un nuovo, terrificante spargimento di sangue.

Ciò significa che ha ragione la destra israeliana? Nient’affatto. La destra sta portando Israele verso la realtà di un’unico stato esteso. Anziché uno stato ebraico (l’unico al mondo), Israele diventerebbe uno stato bi-nazionale, ben presto a maggioranza araba. Mischiare popolazioni che rivendicano ciascuna un’espressione d’indipendenza nazionale, ciascuna con un ethos diverso, una lingua diversa, una diversa religione, una diversa cultura, è la ricetta per un altro spargimento di sangue. E’ quanto sta accadendo in Africa, in Asia, in Medio Oriente e persino in Europa. E’ esattamente ciò che sta accadendo, oggi, in Ucraina orientale. Ed è quello che è successo negli anni ‘90 in Jugoslavia. La fratellanza fra le nazioni è una bella idea in teoria. Ma la Jugoslavia si è divisa, dopo anni di stragi, in sette entità distinte. Non funziona e non ha funzionato nel cuore dell’Europa. Perché la destra vuole imporre una tale miscela a Israele? Negli ultimi dieci anni, Israele è stato principalmente governato da governi unitari. Ci sono state attività edilizie in Giudea e Samaria (Cisgiordania), ma contenute: per lo più limitate ai blocchi di insediamenti destinati a restare israeliani. Per Shaul Arieli, un esperto in fatto di insediamenti, non è fondata l’accusa dell’estrema sinistra secondo cui non vi sarebbe più alcuna possibilità concreta di separare le due popolazioni. Ma un governo tutto di destra più gli ultraortodossi potrebbe cambiare rotta e le costruzioni negli insediamenti potrebbero uscire dai grandi blocchi. Questa non sarebbe la fine dello stato palestinese: sarebbe la fine dello stato ebraico. Certo, non una “fine” che accade dalla sera alla mattina. Dopo tutto si tratta di un processo che va avanti da decenni. Non è ancora troppo tardi, ma potrebbe diventare troppo tardi.

Estate 2014: yazidi in fuga per l'avanzata dell'ISIS in Iraq: "xxx"

“Le minoranze nel moderno Medio Oriente non hanno vita facile” (estate 2014: yazidi in fuga davanti all’avanzata dell’ISIS nel nord dell’Iraq)

Scrive Dror Ze’evi, su YnetNews: «Lo scrittore Amoz Oz ha espresso di recente il timore che se non riusciremo a raggiungere presto un compromesso con i palestinesi, tra un po’ si realizzerà uno stato ben diverso, e non sarà uno stato bi-nazionale bensì uno stato arabo. Oz ha ragione, e non c’è tempo da perdere. Le minoranze nel moderno Medio Oriente non hanno vita facile, e c’è la ragionevole possibilità che in uno stato unico anche noi ebrei finiremmo con l’essere una minoranza perseguitata. Le prossime generazioni rischiano di pagare il prezzo dei nostri errori di oggi». (Da: YnetNews, 29.3.15)

Abbiamo bisogno di una nuova direzione. Questa non è più una lotta sullo stato palestinese, quanto una lotta per una terza opzione che comprenda una risposta parziale alle aspirazioni palestinesi: una separazione unilaterale pur preservando le vitali esigenze di sicurezza; ridurre l’attrito, limitando le attività edilizie ai soli blocchi di insediamenti; tenere la Valle del Giordano; assumere tutte le misure necessarie per prevenire la diffusione della jihad. Non c’è tempo per stare a disperarsi.

Oggi la battaglia non è sulla creazione di uno stato per Hamas, ma una battaglia musulmana, e globale, contro il cancro della jihad, sunnita e sciita, che cresce al loro interno. In questo momento, questa è la principale preoccupazione del mondo musulmano, la prima vittima della jihad, e del mondo libero, che pure ne è investito. Non è facile e non è semplice.

Ciò che è chiaro è che la politica americana degli ultimi anni, nonostante le migliori intenzioni, ha ottenuto l’opposto del risultato sperato. Dunque, davvero, è giunto il momento di un ripensamento. Ma qualcuno alla Casa Bianca è un po’ confuso. Israele non è il nemico. Il nemico è la jihad.

(Da: YnetNews, 28.3.15)