“Non mi faccia ridere”

Nessun accordo di pace sarà possibile finché occidente e sinistra pacifista non cambieranno atteggiamento

di Evelyn Gordon

image_2599Doveva esserci qualcosa nell’aria, il mese scorso. Due personalità di spicco della sinistra pacifista israeliana hanno pubblicamente riconosciuto un paio di problemi fondamentali del “processo di pace” che, se lasciati irrisolti, renderanno impossibile qualunque accordo.
Aluf Benn, corrispondete di politica estera di Ha’artez, ha formulato uno di questi problemi in un editoriale del 7 agosto scorso riferendo di una conversazione che aveva avuto con un “alto diplomatico europeo”. Benn ha posto una semplice domanda: che vantaggio verrebbe all’israeliano medio da un accordo? Il diplomatico era senza parole: ma come, non è ovvio? Ne nascerebbe uno stato palestinese! Quando Benn gli ha fatto notare che alla maggior parte degli israeliani non viene nessun vantaggio dalla nascita di uno stato palestinese, il diplomatico ci ha riprovato: “Beh, vi sarebbe la fine del terrorismo”. “Ma non mi faccia ridere”, è stata la replica di Benn.
Quando, negli anni ’90, in base agli Accordi di Oslo le Forze di Difesa israeliane si ritirarono da porzioni della Cisgiordania e della striscia di Gaza, gli israeliani ricevettero in cambio attentati suicidi nelle loro città. Quando, nel 2005, sgomberarono completamente la striscia di Gaza, ricevettero in cambio lanci missili e razzi sulle comunità del Negev. Ma gli attentati cessarono quasi completamente quando le forze israeliane rientrarono nelle città palestinesi di Cisgiordania, e i lanci di razzi cessarono quasi completamente dopo l’operazione anti-Hamas a Gaza del gennaio scorso. In breve, le Forze di Difesa israeliane hanno fatto un lavoro migliore di quanto abbia mai fatto il “processo di pace” nel garantire la “pace” per come la intendono gli israeliani, vale a dire una “pace” in cui essi non vengano arbitrariamente ammazzati.
Anche la normalizzazione con il mondo arabo non esercita un particolare fascino, notava Benn. La maggior parte degli israeliani “non alberga un intrinseco desiderio di volare con la El Al nello spazio aereo dell’Arabia Saudita né di entrare in un ufficio di interessi marocchino in Israele”. D’altra parte i downsides di un accordo – finanziare lo sgombero di decine di migliaia di coloni e “la spaventosa prospettiva di violente lacerazioni interne” – sono considerevoli.
La conclusione che trae Benn dalla conversazione col diplomatico europeo è inquietante: finora la comunità internazionale non si è mai nemmeno posta il problema di quali vantaggi dovrebbero ricavare gli israeliani da un accordo perché questo aspetto semplicemente non viene considerato di alcuna importanza. Ma se vuole persuadere gli israeliani a sostenere un accordo, aggiunge l’editorialista di sinistra, il mondo farebbe bene a iniziare a pensarci. Giacché gli israeliani si sono già procurati con le loro forze ciò che più desiderano, “pace e quiete”, e difficilmente saranno disposti a mettere tutto questo a repentaglio per “un’altra avventura diplomatica con scarse possibilità di successo e formidabili pericoli”.
Una settimana più tardi il professor Carlo Strenger – un veterano della sinistra israeliana convinto, come scrive egli stesso, che “l’occupazione debba finire il più presto possibile” – ha affrontato un secondo problema nel suo periodico contribuito su a Ha’artez. Cercando di spiegare come mai la sinistra pacifista israeliana sembra praticamente scomparsa, Strenger conclude che ciò è avvenuto perché i suoi esponenti “non hanno saputo offrire una descrizione realistica del conflitto coi palestinesi”. Per anni, dice, la sinistra pacifista ha sostenuto che un accordo coi palestinesi avrebbe prodotto la “pace subito”. Poi, invece, l’Autorità Palestinese “ha formato i suoi figli su libri di testo violentemente anti-israeliani e spesso apertamente antisemiti”, non ha fatto nulla per prevenire (e forse ha addirittura istigato) una catena di attentati suicidi nel 1996, ha silurato i negoziati sull’accordo finale del 2000-2001, infine ha prodotto la seconda intifada delle stragi. Ma, scrive Strenger, anziché ammettere d’aver preso un tagico abbaglio nel credere che i ritiri territoriali avrebbero portato alla pace, la sinistra pacifista dava sempre la colpa a Israele: nel 1996 gli attentati avvennero “perché il processo di Oslo era troppo lento”; i colloqui fallirono perché le offerte di Israele non erano sufficienti; la seconda intifada scoppiò perché Ariel Sharon aveva fatto una passeggiata sul Monte del Tempio. In breve, la sinistra pacifista adottò due false premesse. Primo, “qualunque cosa di aggressivo o distruttivo dica o faccia un soggetto non-occidentale, deve essere sempre spiegato con l’oppressione o la dominazione dell’occidente”, per cui “in pratica non sono mai responsabili delle loro azioni”. Secondo, “se ti comporti in modo gentile con la gente, tutti i conflitti scompaiono”, essendo del tutto irrilevanti altre motivazioni umane come il desiderio di “dominio, di potere o il senso d’onore”. Strenger conclude che, se la sinistra “vuole riguadagnare un po’ di credibilità e convincere gli elettori che ha un ruolo da giocare, allora deve offrire al pubblico una descrizione della realtà assai ragionevole”. Ma lo stesso si potrebbe dire della comunità internazionale, la quale pure ha sempre attribuito ogni fallimento del processo di pace ai comportamenti di Israele: costruzioni negli insediamenti, “eccessivo uso della forza” contro il terrorismo palestinese, concessioni insufficienti ecc.
Sebbene Strenger e Benn affrontassero questioni differenti, i loro due articoli sono strettamente collegati fra loro. La sinistra pacifista israeliana ha rafforzato l’abitudine dell’occidente di incolpare Israele per ogni fallimento, perché quella di sinistra e pacifista è l’unica parte dell’opinione pubblica israeliana che politici e giornalisti occidentali prendono sul serio. E questa abitudine a sua volta ha grandemente contribuito a plasmare l’opinione così diffusa in Israele che il processo di pace comporti solo dolori e nessun vantaggio.
Innanzitutto, dal momento che il mondo pone tutto l’onere del processo su Israele, i palestinesi non si sono mai sentiti spinti a correggere sul serio il loro comportamento, vuoi smettendola di ricorrere al terrorismo, vuoi facendo vere concessioni sui temi dei negoziati finali che sono vitali per Israele. Israele ha ripetutamente alzato la sua offerta nel corso degli ultimi sedici anni, ma i palestinesi non si sono mai mossi di un millimetro. Non solo non intendono concedere nulla sul cosiddetto “diritto al ritorno”, ma rifiutano anche di riconoscere il legame storico degli ebrei con questa terra.
In secondo luogo, se pure all’israeliano medio interessano poco le relazioni con i paesi del mondo arabo, gli interessano invece moltissimo quelle con i paesi dell’occidente. Dunque, una importante motivazione per il processo di pace era la prospettiva di migliorare queste relazioni. E invece la posizione di Israele, soprattutto in Europa, è andata precipitando dal 1993 in poi. Oggi gli europei considerano Israele la più grande minaccia alla pace nel mondo. Le violenze anti-ebraiche in Europa si moltiplicano. La sinistra pacifista europea e americana mette tranquillamente in dubbio il diritto stesso di esistere dello stato di Israele e invoca sempre più spesso sanzioni e boicottaggi. Tutte cose impensabili sedici anni fa, prima che Israele iniziasse a fare concessioni in nome del processo di pace.
E questa discesa a picco nello status di Israele è direttamente connessa al fatto che, ogniqualvolta qualcosa fa storto nel processo di pace, la maggior parte dell’occidente ne dà la colpa a Israele. E il fatto che Washington (pre-Barack Obama) fosse l’unica seria eccezione a questa regola dice molto sul perché la posizione d’Israele in America rimanga forte.
Giacché questa reazione automatica è rimasta sempre uguale per sedici anni, gli israeliani ora sono convinti che continuerà così anche dopo l’eventuale firma di un accordo finale. Il giorno in cui i palestinesi avanzeranno una nuova pretesa post-accordo, o si daranno di nuovo al terrorismo anti-israeliano, l’occidente insisterà perché Israele ceda alle loro richieste e si asterrà dal reagire al terrorismo, coprendo Israele di insulti se non si adeguerà. In breve, Israele potrebbe ben fare tutte le concessioni richieste da un accordo e vedere ugualmente deteriorarsi le sue relazioni con l’occidente.
Il concetto finale che emerge sia da Benn che da Strenger è che nessun accordo di pace sarà possibile finché l’occidente e la sinistra pacifista israeliana non cambieranno radicalmente atteggiamento. La domanda da un milione di dollari è: c’è qualcuno, sia nell’uno che nell’altra, disposto ad ascoltare?

(Da: Jerusalem Post, 3.09.09)