Nostalgia dell’occupazione

Perché i palestinesi fanno di tutto per far tornare Israele a Gaza?

Da un articolo di Andrew Friedman

image_1287Subito dopo il ritiro, la scorsa estate, di tutti i civili e militari israeliani, i portavoce palestinesi si imbarcarono in una bizzarra campagna di PR (per lo più senza successo) volta a convincere tutto il mondo che la striscia di Gaza era ancora, in qualche modo, occupata. Certo, la storia palestinese è piena di bizzarre accuse a Israele (come quella secondo cui i soldati israeliani distribuirebbero caramelle avvelenate ai bambini palestinesi), ma questa era sicuramente una delle più strane. Come poteva essere ancora “occupata” Gaza, se non c’era più neanche un ebreo? Cosa voleva dire questa accusa?
Altra questione. Dopo il disimpegno, i palestinesi hanno fatto tutto il possibile per costringere Israele a rientrare a Gaza. Come ha esplicitamente scritto Shawqi Issa, avvocato di Betlemme e attivista per i diritti umani, “i palestinesi devono obbligare Israele a rioccupare Gaza”
(http://www.bitterlemons.org/previous/bl150506ed19.html#pal2 ).
Il che è semplicemente senza senso. Per anni e anni la presenza israeliana in Cisgiordania e striscia di Gaza è stata la colonna portante delle recriminazioni palestinesi. Le varie fazioni palestinesi vanno ben poco d’accordo fra loro, ma il concetto che un ritiro israeliano avrebbe facilitato la costruzione di uno stato palestinese era una delle poche cose su cui concordavano.
Anche israeliani di ogni ordine e grado si sono schierati a sostegno di un ritiro, dicendo che tale mossa non solo era l’unica che avrebbe garantito la natura ebraica e democratica di Israele, ma avrebbe anche incoraggiato i palestinesi ad abbandonare il sogno di una Grande Palestina e a fare finalmente la pace con Israele. “Dategli qualcosa da perdere – questo era l’argomento sotteso alla proposta – e non saranno disposti a giocarselo tanto facilmente”.
Ma lungo la strada per la pace è accaduta una cosa bizzarra. I palestinesi non sono stati al gioco. Israele ha fatto significativi ritiri da aree contese nel ‘94, nel ‘95, nel ‘96 e anche nel ’97. Quando Benjamin Netanyahu venne eletto primo ministro, nel maggio 1996, ben oltre il 90% dei civili palestinesi vivevano già sotto giurisdizione palestinese. Eppure il numero di attentati terroristici crebbe in modo consistente, obbligando Israele ad aumentare gli arresti, le chiusure di sicurezza e alla fine anche le uccisioni mirate, in diretta proporzione all’ammontare del territorio che veniva trasferito sotto il controllo palestinese.
Il quadro d’insieme sembra indicare uno sforzo concertato da parte della dirigenza palestinese per assicurarsi che Israele preservi un grado di controllo su Gaza.
Il fenomeno può avere diverse spiegazioni. La più ovvia è che l’assenza dell’occupante israeliano pone un onere tremendo sulla dirigenza palestinese, chiamata a produrre risultati positivi. Sin dalla “Naqba” del 1948, e soprattutto dopo la guerra dei sei giorni del 1967, Israele è sempre stato il capro espiatorio per ogni problema possibile e immaginabile, palestinese o internazionale: dall’11 settembre alla morte di Yasser Arafat, con tutto quello che c’è in mezzo. Ora che Israele è fuori da Gaza e che non c’è più l’”occupazione”, i palestinesi sono in un guaio: hanno ricevuto ingenti risorse per costruire lo stato che dicono di volere (pro capite l’Autorità Palestinese riceve più aiuti stranieri di qualunque altro paese al mondo), il che significa che devono mettere sotto controllo la corruzione e iniziare a produrre, oppure devono trovare qualche motivo per spiegare come mai “non possono”. In altre parole, in una Gaza senza Israele le sole opzioni per i palestinesi sono: creare il proprio stato o ripristinare il capro espiatorio. In questo quadro, vale la pena rileggere le parole di Shawqi Issa: “I palestinesi devono obbligare Israele a rioccupare Gaza”.
Ma c’è anche un’altra possibilità. Non potrebbe essere che, per il movimento nazionale palestinese, il conflitto israelo-palestinese è sostanzialmente un conflitto sull’esistenza, propria e di Israele? Gruppi come Hamas, Jihad Islamica, la stessa Olp e altri sono stati fondati per combattere Israele, e nient’altro. Non potrebbe essere che questi gruppi cercheranno di preservare il conflitto ad ogni costo perché, senza il conflitto, non ci sarebbero più né Olp, né Hamas, né Jihad Islamica?
Si può spingere il ragionamento ancora più avanti. Anche se è vero che vi sono gruppi di persone che ora si qualificano come “palestinesi”, è altrettanto vero che prima fino al 1964 (anno di nascita dell’Olp) non esisteva nessun gruppo del genere. Chi avesse chiesto agli abitanti arabi di Haifa, di Giaffa o di Gerusalemme, nel 1900 ma anche nel 1950, quale fosse la loro nazionalità, si sarebbe sentito rispondere “araba”, certo non “palestinese”. E infatti è difficile distinguere quella “palestinese” dalla più generale identità araba. Tutte le principali caratteristiche che identificano una “nazione” (lingua, religione, cultura, cucina) sono indistinguibili da quelle dalla cultura araba. Ed anche quando è emersa una cultura palestinese specifica – come nei casi del regista Hany Abu-Assad o del poeta Mahmoud Darwish – le loro opere si sono concentrate quasi esclusivamente su vari aspetti del conflitto con Israele.
Questo non significa negare, oggi, una nazionalità palestinese. Con qualcosa come due o sette milioni di persone in giro per il mondo che si definiscono, in tutto o in parte, come palestinesi, la nazionalità esiste e deve essere trattata come tale. Ma ciò potrebbe anche spiegare la determinazione con cui la burocrazia palestinese, in ogni fazione e ad ogni livello, cerca di impedire che termini veramente il coinvolgimento di Israele nella vita palestinese.

(Da: YnetNews, 30.06.06)

Nella foto in alto: Conferenza stampa martedì nella moschea Al Omery (Gaza) dei Comitati di Resistenza Popolare palestinesi, una delle fazioni responsabili del sequestro, in territorio israeliano, del soldato Gilad Schalit.