Nostalgia dell’occupazione

Perché i palestinesi hanno fatto di tutto per costringere Israele a rientrare a Gaza?

M. Paganoni per Nes n. 7/8, anno 18 - luglio-agosto 2006

image_1293“Quando la scorsa estate vennero ritirati dalla striscia di Gaza tutti i civili e militari israeliani – scrive Yoel Marcus (Ha’aretz, 23.06.06) – in quel preciso momento i lanci di missili Qassam sarebbero dovuti cessare, se non altro per incoraggiare Israele a proseguire con i ritiri”. E aggiunge, allibito: “Non c’è alcuna logica politica nei lanci di Qassam dopo il ritiro. Il loro obiettivo è uno solo: uccidere civili israeliani solo perché israeliani”.
Una spiegazione prova a darla Andrew Friedman: “Ora che Israele è fuori da Gaza – scrive (YnetNews, 30.06.06) – i palestinesi sono in un guaio. Hanno ricevuto ingenti risorse per costruire lo stato che dicono di volere (pro capite l’Autorità Palestinese riceve più aiuti stranieri di qualunque altro paese al mondo) e dunque o iniziano a produrre qualcosa di positivo, oppure devono trovare un buon motivo per spiegare come mai non lo fanno. In altre parole, in una Gaza senza Israele le sole opzioni per i palestinesi sono: creare il loro stato o riesumare il solito capro espiatorio”. Per questo, conclude, “dopo il disimpegno i palestinesi hanno fatto di tutto per costringere Israele a rientrare a Gaza”.
È quanto auspica esplicitamente un palestinese come Shawqi Issa, avvocato di Betlemme e attivista per i diritti umani: “I palestinesi – ha scritto sul sito israelo-palestinese BitterLemons (15.05.06) – devono smantellare l’Autorità Palestinese e obbligare Israele a rioccupare Gaza. Solo così torneremo a una realtà netta: un popolo sotto occupazione straniera e Israele come occupante. Solo come nazione occupata potremo resistere all’occupazione, senza autorità nazionali fra i piedi: avremo una chiara missione, una chiara lotta da combattere, e la nostra gente la smetterà di incolpare l’Autorità Palestinese per i propri problemi”.
Non a caso Aluf Benn parla di “terra dei paradossi”. “Per decenni – scrive (Ha’aretz, 22.06.06) – l’occupazione israeliana e gli insediamenti sono stati descritti come il vero ostacolo alla pace, la più grave minaccia alla sicurezza della regione se non del mondo intero. Generazioni di diplomatici, politici e intellettuali si sono mobilitati per porre fine all’occupazione e smantellare gli insediamenti, fino al punto di legittimare anche il peggiore terrorismo palestinese come una guerra di liberazione contro il furto di terra, i posti di blocco, le umiliazioni. Oggi Israele si è convinto e vuole ritirarsi dal 90% della Cisgiordania, sgomberando almeno 70.000 coloni, dopo aver dimostrato la serietà delle proprie intenzioni col completo disimpegno dalla striscia di Gaza. E cosa fanno i palestinesi e i loro supporter in giro per il mondo? Dicono a Olmert: no, non ti muovere. Cosa succede? Com’è che, appena Israele capisce che i territori sono un onere anziché una risorsa, improvvisamente i palestinesi non li vogliono più?”
“Oggi in Israele – nota Saul Singer (Jerusalem Post, 8.06.06) – l’opposizione a uno stato palestinese è ridotta a una frazione minoritaria della Knesset e dell’opinione pubblica. La prospettiva di uno stato palestinese è stata adottata anche dall’ex falco Ariel Sharon e dal suo successore Ehud Olmert. Israele non solo accetta, ma vuole uno stato palestinese. Disimpegno e convergenza sono essenzialmente modi diversi per forzare la creazione di uno stato palestinese, nonostante l’opposizione dei palestinesi”.
E’ un bel paradosso, ma non è una novità. “La stessa offensiva terroristica iniziata nel settembre 2000 – continua Singer – venne lanciata per consacrare il rifiuto di Yasser Arafat di quello stato indipendente che gli era stato offerto due mesi prima al summit di Camp David”. Un rifiuto che non si spiega certo con questioni di territorio, dal momento che Israele era disposto ad accettare uno stato palestinese sulla striscia di Gaza e sul 97% della Cisgiordania, con continuità territoriale, suddivisione di Gerusalemme e lauti indennizzi per i profughi. Non è per una disputa territoriale del 3% che i palestinesi rinunciarono all’indipendenza e lanciarono una guerra da migliaia di morti (in cinque anni i terroristi hanno ucciso più persone in Israele di quante ne abbia uccise la mafia in Italia in cento anni). Né certo per una passeggiata davanti a una moschea. I palestinesi non rifiutarono un compromesso: rifiutarono il compromesso. Rifiutarono la pace, perché il conflitto con Israele doveva continuare. Poi, un pretesto per continuarlo si può sempre trovare.
Anche quella dei pretesti non è una novità, né un’esclusiva dei palestinesi. Il caso forse più eclatante rimane quello delle fattorie Shebaa, al confine fra Israele, Libano e Siria. Nel maggio 2000 Israele completa il ritiro dal Libano attestandosi sul confine internazionale, ritiro ufficialmente riconosciuto dal Consiglio di Sicurezza. Da allora, pur di giustificare la presenza al confine dei jihadisti libanesi filo-iraniani Hezbollah e le loro minacce contro Israele, Beirut e Damasco sostengono che l’occupazione israeliana non è finita perché, secondo loro, una decina di fattorie abbandonate che Israele ha conquistato alla Siria durante la guerra dei sei giorni del 1967 sarebbero invece libanesi. Non è uno scherzo: in tutta serietà, autorità e milizie arabe sostengono che lo stato di guerra fra Israele e Libano deve continuare, che bisogna continuare ad ammazzarsi perché un fazzoletto di terra disabitato e di dubbia sovranità langue sotto il giogo dell’occupazione israeliana. Insomma, un pretesto.
Come quarant’anni fa. Chi non ricorda il 1967, ha potuto vederne nel 2006 una sorta di riedizione in sedicesimo. Prima del 1967 Israele non era nella striscia di Gaza né in Cisgiordania, ma l’ostilità araba, con il suo incessante corredo di attacchi, attentati, minacce e provocazioni, riuscì a innescare l’escalation che infine spinse Israele all’invasione di quei territori. E del Sinai egiziano, che però venne completamente restituito quando l’Egitto accettò di fare la pace con Israele. “Anwar Sadat venne a Gerusalemme e ottenne il Sinai – riassume Aluf Benn – Hafez Assad si rifiutò di venire, e restò senza Golan”. Giacché, anche lì, la questione non era il territorio: la questione era il mancato riconoscimento di Israele, era l’ostilità, era il conflitto.
Ostilità e conflitto che erano nati ben prima dell’occupazione dei territori, salvo poi per decenni cercare di giustificarli a posteriori focalizzando diplomazia, stampa e propaganda sull’occupazione soltanto (anche da parte di quella Olp che pure era stata fondata nel 1964, prima che iniziasse l’occupazione). Così come, in anni più recenti, stampa e propaganda si sarebbero scagliate contro il cosiddetto “muro” israeliano fino al punto di lasciar intendere che esso abbia provocato quella “rabbia” terroristica palestinese che invece lo precedeva, e di cui il “muro” fu manifestamente una conseguenza.
D’altra parte, risalendo ancora nel tempo, anche l’aggressione araba contro Israele nel 1948 venne giustificata a posteriori accampando vari pretesti. Si disse, successivamente, che la spartizione proposta dall’Onu non era equa a causa, anche qui, di alcuni punti percentuali di territorio (desertico). Si disse che gli stati arabi intervennero militarmente per far rispettare i confini delineati dalla risoluzione Onu (che però avevano rifiutato), fino a sostenere che i loro eserciti non avrebbero attuato “nessun tentativo di invadere il territorio assegnato a Israele dalle Nazioni Unite, limitandosi alla difesa della parte araba della Palestina” (www.progettonovecento.it). Si disse che intervennero per fermare l’esodo di profughi (che però non era ancora iniziato quando, alla fine del ’47, avevano pubblicamente rifiutato la spartizione e annunciato che vi si sarebbero opposti con la forza). Tanti pretesti, pur di non dire ciò che invece proclamò con chiarezza la Lega Araba al momento dell’entrata in guerra contro Israele (15.05.48): “L’unica soluzione del problema palestinese è la creazione di un unico stato unitario di Palestina”.
“Chi esamina la storia della Terra d’Israele/Palestina e delle due nazioni che vi vivono – scrive Amnon Rubinstein (Jerusalem Post, 16.05.06) – non può che arrivare alla conclusione che l’unica soluzione è il compromesso: suddividere la terra tra i due popoli. Il movimento nazionale sionista ha accettato la suddivisione, ad eccezione degli anni successivi alla guerra dei sei giorni quando fu inebriato dalla propria apparente potenza. Il movimento sionista era pronto al compromesso nel 1947; lo stato di Israele è pronto al compromesso oggi. Il movimento nazionale palestinese, invece, non ha accettato alcun compromesso. Non lo ha accettato nel 1947, e non lo accetta oggi. Ciò che è in discussione, qui, non sono dunque i confini, né il profilo dei due stati. Ciò che è in discussione è il principio stesso della suddivisione della terra in due stati per due popoli”.

Nell’immagine in alto: Un quaderno di scuola palestinese (finanziata dall’agenzia Onu UNRWA): Israele è cancellato