Nuove minacce, nuove risposte

Mantenere loccupazione sui territori non offre risposta a nessuna di queste minacce.

di Amnon Rubinstein

image_453La rielezione del presidente George W. Bush, uno dei più vicini a Israele, e la scomparsa di Yasser Arafat, una delle figure più negative nella storia del Medio Oriente, richiede che Israele cerchi di cogliere le opportunità poste dalla nuova situazione. Una nuova dirigenza palestinese potrebbe anche tentare di porre fine al terrorismo, come prevede la stessa Road Map. Ma, indipendentemente dal fatto che una tale dirigenza emerga o meno, gli sviluppi della situazione impongono a Israele di ridefinire i suoi obiettivi e di cercare di raggiungerli.
Il primo obiettivo è arrivare a un accordo sulla spartizione della Terra d’Israele/Palestina occidentale [tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano] secondo lo schema concordato da Ehud Barak e Bill Clinton. Quei parametri possono essere interpretati per respingere il cosiddetto “diritto al ritorno” dentro Israele dei discendenti dei profughi del 1948, per garantire la maggioranza ebraica all’interno di Israele alle future generazioni e per metterla in condizione di esistere entro confini difendibili.
Secondo tutti i sondaggi, la maggior parte dell’opinione pubblica ebraica d’Israele è favorevole ai principi di questo schema: adottarlo consentirebbe a Israele di erigere la barriera di sicurezza (uno strumento vitale sul quale non si dovrebbe cedere in ogni caso) lungo un tracciato internazionalmente accettabile.
Esiste anche la possibilità che la dirigenza palestinese non ripeta l’imperdonabile scelleratezza che fece Arafat di rifiutare l’offerta Barak-Clinton, tradendo totalmente le promesse fatte all’ambasciatore saudita a Washington e dando il via alla campagna di assassinio contro cittadini israeliani sotto il falso nome di “intifada Al Aqsa”. Sappiamo da testimoni coinvolti in quei colloqui che Arafat decise personalmente di imboccare questa strada criminale, contro il parere di alti membri della delegazione palestinese. Esiste la possibilità che un ritorno di Israele alla soluzione Barak-Clinton (alla quale, peraltro, non vi sono alternative) possa non incappare in un altro funesto rifiuto alla Arafat.
Ma quand’anche vi fosse un altro rifiuto palestinese, adottare di nuovo una posizione fondata più o meno sulle intese Barak-Clinton offrirebbe tre vantaggi sostanziali: permetterebbe a Israele di completare la barriera di sicurezza su un tracciato internazionalmente accettabile, migliorerebbe lo status di Israele nel consesso dei paesi democratici (del quale vuole e deve fare parte), e lo aiuterebbe nel compito più importante: arrivare a un patto di mutua difesa con gli Stati Uniti.
Questo patto è la sola valida risposta alle minacce strategiche cui Israele dovrà fare fronte nel futuro prossimo. In effetti, un patto di difesa israelo-americano, se mai vedrà la luce, lo farà solo durante il secondo mandato di un presidente come George W. Bush, e un segretario di stato come Condoleezza Rice. Il patto instillerebbe una dose di realismo non solo nei leader arabi e iraniani che sognano esplicitamente di distruggere Israele e che stanno dotandosi di strumenti spaventosi per cercare di realizzare il loro sogno (l’importante accordo raggiunto da paesi europei con l’Iran per la sospensione della produzione di uranio arricchito, anche se venisse osservato non eliminerebbe tale necessità). Qualunque cosa faciliti il conseguimento di un patto di difesa israelo-americano è auspicabile e di vitale importanza, più vitale delle questioni che oggi occupano le prime pagine dei nostri giornali. Qualunque cosa lo ritardi è negativa per Israele.
Nel corso degli anni abbiamo imparato, correttamente, a pensare alla sicurezza di Israele in termini di misure di difesa continuativa fra periodiche minacce di guerra. In effetti, ci siamo attrezzati per quelle minacce e abbiamo creato una impressionante forza difensiva capace di stornare qualunque invasore.
Ora è il momento di mettere bene a fuoco quali sono le tre minacce che Israele dovrà fronteggiare: il terrorismo permanente; il paese inondato di profughi e clandestini tanto da ridurre la maggioranza ebraica e col tempo farla scomparire; il pericolo di missili armati con armi convenzionali e non convenzionali.
Mantenere l’occupazione israeliana sulle regioni di Gaza, Giudea e Samaria non offre alcuna risposta a nessuna di queste tre minacce. Al contrario, è facile dimostrare che restare aggrappati a quei territori ci indebolisce soltanto.
La triplice minaccia che dobbiamo affrontare richiede una triplice risposta. Primo, rifiutare senza mezzi termini il cosiddetto “diritto al ritorno” all’interno di Israele, anche solo nella forma ambigua e limitata prevista dall’intesa [virtuale] di Ginevra. Secondo, completare la barriera di sicurezza, che dà visibilità alla spartizione della terra e previene infiltrazioni illegali. Terzo, e più importante: adoperarsi per arrivare a un patto di mutua difesa con la più forte superpotenza del mondo.
Queste sono le risposte corrette alle attuali minacce contro la nostra esistenza. Non dobbiamo lasciarci sfuggire questa unica opportunità di realizzarle tutte e tre.

(Da: Jerusalem Post, 23.11.04)

Nella foto in alto: l’autore di questo articolo, Amnon Rubinstein