Nuovi possibili alleati per Israele

Il Cairo e il Vaticano hanno interessi convergenti con Gerusalemme

Da un articolo di Caroline Glick

image_2494Come la natura, anche le relazioni strategiche d’Israele rifuggono il vuoto. In seguito alla decisione dell’amministrazione Obama di ridimensionare drasticamente l’alleanza strategica fra Stati Uniti e Israele, sulla base dell’interesse americano per un riavvicinamento con Iran e Siria, il governo Netanyahu si deve muovere prontamente per riempire il vuoto.
Lunedì scorso, con l’arrivo di papa Benedetto XVI e l’incontro del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu con il presidente egiziano Hosni Mubarak a Sharm e-Sheikh, sono entrati in scena due potenziali alleanze strategiche.
Costruire una efficace alleanza con Egitto e Vaticano costituisce un processo delicato. Ogni parte vuole dall’altra più di quanto l’altra possa ragionevolmente offrire. Ma ogni parte ha anche molto da guadagnare pur senza ottenere tutto ciò che vorrebbe. L’arte del costruire alleanze consiste nel rendere il nuovo alleato soddisfatto di ciò che ottiene e abbastanza tranquillo col fatto di non ottenere tutto. Questo è il compito che si presenta a Netanyahu e colleghi nel momento in cui si impegnano in colloqui con il papa e con Mubarak.
L’obiettivo strategico che Israele desidera perseguire attraverso l’alleanza con il Vaticano è rafforzare la sua posizione internazionale quale unica autorità sovrana a Gerusalemme. L’obiettivo strategico che desidera perseguire con l’Egitto è impedire l’acquisizione di armi nucleare da parte dell’Iran.
Sotto papa Benedetto XVI la possibilità di guadagnare l’appoggio della Chiesa Cattolica alla posizione di Israele che Gerusalemme non debba essere ridivisa ma rimanere sotto sovranità israeliana, è maggiore di quanto non fosse sotto i suoi predecessori. A differenza dei suoi predecessori, Benedetto XVI ha parlato apertamente della sua preoccupazione per le difficoltà delle minoranze cristiane nei paesi islamici. Durante la sua visita ad Amman ha invocato esplicitamente maggiore protezione per i cristiani iracheni aggrediti da ogni parte. Da quando è subentrato a papa Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ha fatto ripetuti appelli per la tolleranza religiosa e per la libertà nei paesi islamici, in modo particolarmente significativo nel suo discorso a Ratisbona del 2006 quando ha citato un imperatore bizantino del Medio Evo che criticava l’islam per la volontà di diffondere il proprio messaggio con la spada. Dopo che quelle parole avevano scatenato sanguinose violenze un po’ in tutto il mondo islamico, Benedetto XVI ha espresso rammarico per il danno causato dalle sue dichiarazioni, ma non le ha ritrattate. Anzi, durante la sua visita alla Moschea Re Hussein di Amman, sabato scorso, ha indirettamente ribadito il suo messaggio del 2006. Dicendo “è la manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici, il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e non di rado anche delle violenze nella società”, non ha fatto che rafforzare, seppure in modo un po’ criptico, la sua critica basilare dell’islam.
L’evidente riconoscimento da parte del papa del pericolo che l’islam jihadista rappresenta per i cristiani può porre il Vaticano, sotto la sua guida, in posizione tale da essere più interessato di quanto non fosse in passato a collaborare con Israele per garantire i luoghi santi cristiani a Gerusalemme, appoggiando il controllo d’Israele sulla città. Il papa ha reso ancora più evidente questa possibilità nella sua omelia sul Monte Nebo, la montagna da cui Mosè guardò alla Terra d’Israele, quando ha parlato del ”vincolo inseparabile tra Chiesa e popolo ebraico”. Per dirla con le sue parole: “Sin dall’inizio la Chiesa in queste terre ha commemorato nella propria liturgia le grandi figure dei patriarchi e dei profeti come segno di profondo apprezzamento per l’unità dei due Testamenti. Possa il nostro incontro di oggi ispirare in noi un rinnovato amore per il canone delle Sacre Scritture e il desiderio di superare tutti gli ostacoli alla riconciliazione della Chiesa e degli ebrei, in reciproco rispetto e cooperazione, al servizio di quella pace cui la parola di Dio ci chiama”. Dicendo questo, il papa ha messo in chiaro che considera la salvaguardia dei luoghi santi ebraici a Gerusalemme come essenziale per il retaggio della Chiesa stessa. Il Waqf islamico(l’amministrazione delle proprietà religiose musulmane), che assumerebbe il controllo di luoghi santi della città nel caso essa venisse divisa, si è già spinto molto avanti nell’opera di distruzione sistematica delle rovine sul Monte del Tempio e del patrimonio ebraico e cristiano nel “bacino santo” con furti archeologici, costruzioni e scavi illegali.
La possibilità per Israele di trovare nel Vaticano un alleato e in questo modo promuovere un’alleanza con la Chiesa su Gerusalemme è limitata dal retaggio del comportamento della Chiesa durante la Shoà. Politicamente questo limite si manifesta nel dichiarato intento del Vaticano di canonizzare papa Pio XII. Molto semplicemente, nessun governo di Gerusalemme ha il diritto morale di ignorare le pesanti accuse mosse a Pio XII d’aver collaborato con i nazisti durante la Shoà. È per l’imperativo morale di restare sempre vigili nel cercare giustizia per i nostri fratelli assassinati che successivi governi israeliani hanno messo in tensione le relazioni col Vaticano contestando la canonizzazione di Pio XII. Ciò che il governo potrebbe fare è incoraggiare gli storici della Shoà e lo Yad Vashem ad impegnare le controparti cattoliche in uno studio congiunto, con ricerche e convegni, sulle accuse contro Pio XII. Dibattiti di questo tipo fra studiosi del Vaticano e di Yad Vashem si sono già tenuti nel corso degli anni, i più recenti lo scorso marzo: Israele dovrebbe proporre di istituzionalizzarli.
Particolarmente degno di uno studio congiunto sono le rivelazioni fatte nel gennaio 2007 da Ion Pacepa, ex capo della Securitate rumena, secondo il quale le accuse contro Pio XII furono il frutto di un’operazione del KGB. In un articolo pubblicato sulla National Review, Pacepa, che quando passò negli Stati Uniti nel 1978 divenne il più alto ufficiale in grado che abbia mai disertato dal blocco sovietico, sostiene che alla fine degli anni ’50 il KGB iniziò a percepire la Chiesa cattolica come un fondamentale minaccia al suo controllo sui paesi del blocco orientale. Di conseguenza nel 1960 il KGB decise di condurre una campagna per distruggerne l’autorità morale. Giacché Pio XII era morto due anni prima, venne presa la decisione di censurarlo come collaboratore dei nazisti dal momento che comunque non avrebbe potuto difendersi. Pacepa sostiene che il dramma del 1964 “Il vicario”, che spalancò la diga alle accuse contro Pio XII, venne scritto dallo stesso KGB e che il suo presunto autore, Rolf Hochhuth, era un “compagno di viaggio” comunista. (…) D’altra parte è impossibile verificare le affermazioni di Pacepa per via del rifiuto vaticano di aprire i suoi archivi relativi al periodo bellico. Se studiosi israeliani volessero impegnare le controparti cattoliche in un aperto scambio di informazioni sul comportamento di Pio XII durante la seconda guerra mondiale che permetta una corretta valutazione di ogni informazione verificabile indipendentemente dal risultato di tali ricerche, Israele potrebbe sgomberare parte dell’acrimonia che rende difficile ottenere la cooperazione del Vaticano su pressanti preoccupazioni come il rafforzamento della sua posizione diplomatica sulla questione di Gerusalemme. E, di nuovo, questo rientra nell’interesse strategico della Chiesa stessa, giacché essa desidera salvaguardare e garantire il libero accesso ai luoghi santi cristiani ed ebraici che si trovano a Gerusalemme.
C’è poi l’Egitto. Nel suo discorso videoregistrato alla conferenza dell’associazione di amicizia israelo-americana AIPAC della scorsa settimana, Netanyahu ha sostenuto una alleanza strategica con l’Egitto quando ha detto: “Per la prima volta nella mia vita … arabi ed ebrei vedono un pericolo comune … C’è una grande sfida in arrivo. Ma quella sfida può anche presentare grandi opportunità. Il pericolo comune riecheggia nelle parole di leader arabi in tutto il Medio Oriente, e riecheggia ripetutamente in Israele … e se dovessi riassumerlo in una frase, direi: non si può permettere che l’Iran sviluppi armi nucleari”.
Da quando nel 2006 Hamas ha preso il controllo della striscia di Gaza, l’Egitto ha ripetutamente dimostrato di sostenere Israele nella lotta contro l’Iran e i suoi agenti. Sia l’Egitto che l’Arabia Saudita hanno appoggiato Israele nella guerra contro l’agenti iraniano Hezbollah in Libano nel 2006, e l’hanno appoggiato nella guerra contro l’agente iraniano Hamas nella controffensiva a Gaza lo scorso gennaio. L’Egitto ha aiutato Israele tenendo chiuso il suo confine con la striscia di Gaza e permettendo agli aerei israeliani di sorvolare lo spazio aereo egiziano quando sono andati a colpire in Sudan i convogli di armi iraniane destinate a Gaza. Inoltre, rifiutando la scorsa settimana del tentativo dell’amministrazione Obama di vincolare la politica contro gli impianti iraniani per armi nucleari a concessioni israeliane verso i palestinesi, Mubarak e i suoi collaboratori al Cairo hanno lasciato intendere che vedrebbero con favore un’azione militare d’Israele contro quegli impianti.
D’altra parte, nella sua qualità di autoproclamato leader del mondo arabo, l’Egitto è il principale sponsor della guerra palestinese contro Israele e uno dei leader della campagna volta a delegittimare Israele sul piano internazionale. Il regime di Mubarak rischierebbe la propria stabilità interna se venisse percepito come favorevole a Israele giacché la stragrande maggioranza degli egiziani detesta Israele e gli ebrei. Oggi inoltre l’Egitto deve tener conto della Giordania. L’amministrazione Obama ha chiaramente reclutato re Abdullah II come suo rappresentante nel mondo arabo per costringere Egitto e stati del Golfo a negare il loro appoggio a Israele sull’Iran finché Israele mantiene il suo rifiuto di cedere altre terre ai palestinesi. Dato il nuovo ruolo della Giordania, Egitto e stati del Golfo sono stati messi in una situazione ancora più scomodo rispetto a Israele e Iran.
Per affrontare questa situazione, il governo Netanyahu dovrebbe attenersi rigorosamente alla linea che Netanyahu ha tracciato nel suo discorso ad AIPAC, quando ha messo in chiaro che non vi saranno possibilità di pace con i palestinesi finché l’Iran e i suoi agenti resteranno predominanti. Netanyahu dovrebbe anche ricordare che la ragione per cui Egitto e Arabia Saudita hanno finito per accettare il controllo di Hezbollah sul Libano e quello di Hamas su Gaza è che, col governo Olmert, Israele non riuscì a sconfiggerli. Se Israele avesse sgominato Hezbollah nel 2006 e Hamas lo scorso gennaio, l’Egitto oggi avrebbe probabilmente una posizione assai diversa sulla questione palestinese.
Come Israele, anche l’Egitto considera suo massimo interesse nazionale impedire all’Iran di acquisire armi nucleari e indebolire i suoi agenti Hezbolah e Hamas. Se, con l’aiuto dell’Egitto, Israele riuscirà a bloccare con successo la corsa dell’Iran alle armi nucleari, la dinamica regionale circa i palestinesi, che sostengono l’Iran, e la posizione politica dell’amministrazione Obama, che sta permettendo all’Iran di acquisire armi nucleari, potrebbero cambiare. Dunque ciò che deve fare Israele è guadagnare tempo sulla questione palestinese e intanto cercare di fermare la corsa dell’Iran alle armi nucleari.
Costruire alleanze non è cosa semplice. Riconoscerne limiti e potenzialità richiede coraggio e pazienza. Ma oggi è chiara la possibilità di costruire nuovi rapporti. La grande sfida per Israele è saper cogliere il momento.

(Da: Jerusalem Post, 12.05.09)

Nella foto in alto: Caroline Glick, autrice di questo articolo