Obama è un pericolo per Israele?
La maggior parte degli ebrei risponde no
Da un articolo di Amos Harel
Ogni israeliano che abbia tenuto una conferenza davanti a un uditorio ebraico-americano nel corso dell’ultimo anno conosce questa trafila: subito dopo essere sceso dal palco, veniva preso da parte da un gruppetto di ebrei preoccupatissimi. “Sappiamo che lei non può interferire pubblicamente con i nostri affari interni – gli sussurravano – ma ci dica la verità: Obama è un pericolo per Israele?”
Secondo tutti i sondaggi la maggior parte degli ebrei risponde “no”, nonostante questa preoccupazione esista effettivamente tra alcuni di loro. A dispetto della campagna negativa sulle “connessioni” di Barak Obama con Israele e tutto il chiasso fatto attorno al suo terzo nome (Hussein), a quanto pare la stragrande maggioranza degli ebrei americani confermerà la propria storica lealtà per il Partito Democratico. Ma il fastidioso dubbio non se ne andrà.
La risposta standard israeliana è che Obama, a quanto è dato sapere, non costituisce affatto un pericolo per Israele. Il sistema americano è più forte del singolo individuo. Fatta eccezione per crisi estreme, è difficile immaginare un singolo presidente che possa imprimere una importante svolta anti-israeliana nella politica mediorientale degli Stati Uniti. Questo genere di cambiamenti prendono anni, e comunque Obama parla di mutamenti in altri campi. Il sostegno a Israele è profondamente radicato nel cuore dell’establishment di Washington. E poi, naturalmente, non si può nemmeno svilire ciò che dichiara lo stesso candidato in questione, il quale ha più volte ribadito il proprio impegno verso Israele.
Ma c’è un’incognita, nell’equazione della politica estera di Obama: il suo atteggiamento rispetto all’Iran. I pubblici rappresentanti a Gerusalemme non lo diranno mai ad alta voce, ma la posizione di Obama a favore della ripresa del dialogo con Tehran non li lascia tranquilli. È vero che anche il presidente George W. Bush ha espresso l’intenzione di aprire un ufficio di interessi americano a Tehran. Ma Bush ha complessivamente dimostrato la sua determinazione contro l’Iran, mentre alle orecchie israeliane i toni di Obama circa il programma nucleare di quel paese suonano un po’ troppo accondiscendenti. Naturalmente potrebbe accadere il contrario: un fallimento nei contatti diplomatici con l’Iran potrebbe irrigidire la posizione dell’eventuale presidente Obama verso l’Iran. Inoltre, Obama è ben consapevole dei sospetti su di lui in questo campo. Nondimeno, per quando riguarda l’Iran, sembra che Israele si troverebbe più tranquillo con lìeventuale presidente John McCain. È difficile chiedere agli israeliani di guardare al quadro d’insieme quando hanno sopra la testa la spada di Damocle della (imminente) bomba iraniana.
Tuttavia va detto che una eventuale vittoria di Obama comporterebbe tutta una serie di implicazioni positive non necessariamente connesse con il Medio Oriente, ad esempio nei rapporti interraziali all’interno degli Stati Uniti e nell’immagine dell’America del mondo.
Ancora più importante, Obama diventerebbe presidente in un paese dove solo cinquant’anni fa in alcuni stati un nero rischiava di essere impiccato al primo albero per il solo fatto d’aver guardato una donna bianca; un paese dove solo quarantacinque anni fa venivano assassinati degli ebrei attivisti dei diritti civili, e i loro corpi gettati in una palude del delta del Mississippi, per il solo fatto d’aver registrato e incoraggiato elettori neri; un paese dove quarant’anni fa Martin Luther King veniva assassinato da un razzista bianco per aver osato sostenere che i neri meritano pari diritti.
Uno degli inni ufficiosi della campagna di Obama ha un significato speciale: “Yes, We Can” (sì, possiamo), scritto ed eseguito da due nativi di New Orleans, Lee Dorsey ed Allen Toussaint. New Orleans è la città che l’amministrazione Bush ha lasciato agonizzare dopo l’uragano Katrina. “Yes, We Can”, come la maggior parte dei grandi inni del movimento per i diritti civili, venne scritto negli anni ’60. Nel 1964, quando Obama aveva 3 anni, Sam Cooke (1931-1964) scriveva “A Change Is Gonna Come” (Ci sarà un cambiamento). Martedì, se vincerà Obama, le stazioni radio degli Stati Uniti manderanno in onda questa canzone il cui terzo verso (“I go to the movie and I go downtown, somebody keep telling me don’t hang around”: vado al cinema e vado in centro, e qualcuno continua a dirmi di non farmi vedere nei paraggi) un tempo era troppo audace per passare in radio. In questo senso, una vittoria di Obama non sarebbe meno importante della marcia di Martin Luther King su Washington, e quasi altrettanto importante del Civil Rights Act firmato dall’allora presidente Lyndon Johnson.
Martedì mattina un nero – benché non discendente diretto di schiavi (suo padre giunse in America dall’Africa novant’anni dopo l’abolizione della schiavitù) – potrebbe essere eletto alla carica più importante del mondo. Sam Cooke, da qualche parte, starà sorridendo.
(Da: Ha’aretz, 04.11.08)