Oltre Sharm

Se Israele non avesse vinto il terrorismo, nessun leader arabo si sarebbe preso la briga di organizzare un summit.

Alcuni commenti dalla stampa israeliana

image_573Scrive Ha’aretz: La dichiarazione più importante che è stata fatta al summit dell’8 febbraio a Sharm el-Sheikh si riferisce alla cessazione delle violenze. È stata la prima volta che i leader delle due parti, Sharon e Abu Mazen, hanno chiaramente e fermamente proclamato la fine delle ostilità e delle violenze contro israeliani e palestinesi ovunque si trovino. Negli anni scorsi vi erano stati occasionali discorsi su calma e cessate il fuoco, ma il cambiamento questa volta sta nel fatto che la dichiarazione è accompagnata da ciò che viene definito un “orizzonte politico”. Inoltre il summit di Sharm el-Sheikh per la prima volta ha aperto la strada a un piano di disimpegno israeliano che non sia più unilaterale, bensì compiuto in coordinamento e possibilmente con un accordo fra Israele e Autorità Palestinese. Non c’è dubbio che un pianto raggiunto attraverso un accordo tra le parti sia preferibile ad uno attuato del tutto unilateralmente. Tale coordinamento rappresenterà senza dubbio uno dei principali successi che entrambe le parti potranno accreditare a proprio merito.

Scrive il Jerusalem Post: Nel suo discorso a Sharm el-Sheikh, Sharon ha messo una punta di ironia quando ha detto: “Noi in Israele abbiamo dovuto destarci dai nostri sogni. Anche voi dovere dimostrare che avete la forza e il coraggio di fare compromessi, abbandonare i sogni irrealizzabili, domare le forze che si oppongono alla pace e al reciproco rispetto, fianco a fianco con noi”. Israele ha abbandonato il sogno di molti suoi cittadini di reclamare permanentemente il cuore della patria biblica espugnata nel 1967. Almeno altrettanto profondamente, la percezione di uno stato palestinese è passata da quella di una minaccia mortale a quella di una necessità storica. I palestinesi, al contrario, non hanno ancora avviato la parallela evoluzione che deve aver luogo affinché la soluzione “due stati” abbia qualche possibilità. Non hanno ancora iniziato ad abbandonare la loro pretesa di un diritto palestinese a vivere su entrambi i versanti della Linea Verde. Abu Mazen non ha ancora iniziato a parlare, nemmeno in generale, della necessità di dolorose concessioni da parte palestinese, per non dire della specifica necessità di abbandonare, per sempre, il sogno del “ritorno” a Haifa, a Giaffa o a Safed, la città dove è nato lo stesso Abu Mazen. Al contrario, martedì egli ha ripetuto trite parole che rimandano implicitamente a queste pretese inaccettabili.

Scrive Yediot Aharonot: L’idea che il summit di Sharm el-Sheikh non sia niente di più che parole ignora la forza del dialogo fra leader come una forza che plasma e modifica le coscienze nazionali. Sia gli israeliani che i palestinesi si trovano in un processo di cambiamento di idee e atteggiamenti preconcetti, e le parole usate per imprimere questo cambiamento sono parole importanti.
Secondo Yediot Aharonot, la cosiddetta seconda intifada dovrebbe essere chiamata “l’intifada di Arafat” [alcuni lettori del Jerusalem Post propongono “Arafada”], dal momento che solo Arafat la teneva in vita. Se Israele non ne fosse uscito vittorioso, nessun leader arabo si sarebbe preso la briga di organizzare un summit con il primo ministro israeliano, invitandolo nel proprio paese. Solo quando ha capito che Israele aveva messo in campo una schiacciante risposta militare al terrorismo islamico, il mondo arabo tutt’attorno ha trovato la volontà di tornare a sedere al tavolo negoziale. Il processo diplomatico è ripartito quando Israele è tornato a parlare da una posizione di forza. Ora israeliani e palestinesi devono assicurarsi che le organizzazioni terroristiche, significativamente indebolite, non possano riacquistare la forza che avevano prima.

(Da: Ha’aretz, Jerusalem Post, Yediot Aharonot, 9.02.05)