Ospedali israeliani: dove umanità e spirito di servizio prevalgono su tutto il resto

“Ho molte critiche da muovere alla politica d’Israele, ma il funzionamento del sistema sanitario israeliano e la sua capacità di separare nettamente la politica dalla medicina si sono guadagnati tutta la mia ammirazione”

di Aziz Abu Sarah

image_2924Ci sono molte ragioni per essere pessimisti, e a volte disperarsi, per il conflitto israelo-palestinese. Eppure, anche quando tutto sembra senza speranza, la speranza trova il modo di apparire regalandoci una visione di quello che potrebbe essere al posto di quello che è. Recentemente ho intravisto un barlume di questa speranza in un contesto inverosimile: il sistema sanitario israeliano.
In dicembre mi sono sottoposto con il mio medico di famiglia a Gerusalemme est a un check-up di routine e ho ricevuto la notizia che tutti temono: avevo il cancro. Quello che era sembrato un piccolo bozzo nel collo era invece un cancro della tiroide, una notizia sconvolgente per una persona di meno di 30 anni. Rapidamente si decise per un intervento che venne fissato per il 17 maggio.
Chiamai immediatamente un mio caro amico, il dottor Adel Misk, un neurologo palestinese di Gerusalemme est. Misk lavora sia in ospedali israeliani che palestinesi, e cura nello stesso modo palestinesi e israeliani. Fu lui ad indirizzarmi alla sua collega, la dottoressa Shila Nagar, un’endocrinologa ebrea israeliana. Quando Misk mi mandò da Nagar non pensava in termini di palestinesi o israeliani, quanto piuttosto in termini di quale specialista potesse curarmi meglio. Non badava alle sue pratiche religiose o alle sue opinioni politiche, ma solo ai suoi risultati come medico.
Nella sala d’attesa fuori dell’ufficio di Nagar non potei fare a meno di notare quanti palestinesi c’erano. Non li disturbava il fatto che la dottoressa fosse ebrea, così come ai pazienti ebrei di Misk non dà alcun fastidio che egli sia un palestinese. Tutti gli stereotipi e le barriere del fervore nazionalista erano soppiantati da essenziali istinti di sopravvivenza.
Condivisi questi i miei pensieri sulla cooperazione medica israelo-palestinese con Nagar, la quale mi raccontò la storia di un suo amico ebreo che aveva problemi di prostata. Una notte, in preda a un blocco doloroso, si recò al pronto soccorso. Il medico di guardia era una donna araba e la cosa non gli fece piacere: doppia guaio, pensava, un medico arabo e donna. Dapprima si rifiutò di lasciarsi curare da lei; poi però, col dolore aumentava, cambiò idea e la richiamò. Ora, a diversi anni di distanza, quella donna araba è il suo medico di fiducia oltre che una cara amica. Questa esperienza personale fu l’esempio portato da Nagar di come l’umanità, e la necessità fisica, possono superare il nazionalismo.
Facciamo un salto in avanti e arriviamo al giorno della mia operazione. Per una specie di scherzo del destino, eccomi lì: un giornalista palestinese, avvolto in una camice d’ospedale coperto di stelle di David. Ero stressato e impaurito. Eppure nessuna di queste emozioni aveva a che fare con la nazionalità dei miei medici o i ricami sul camice. Avevo paura dell’operazione, e della possibilità di non risvegliarmi. Ad ogni modo, quando venni portato in sala operatoria, ricevetti un’altra dose di speranza. Avevo due chirurghi, uno arabo palestinese, l’altro ebreo israeliano. L’anestesista era un russo estremamente esperto e competente che scherzò con me finché non mi addormentai. La mia vita era nelle mani della équipe ideale.
Nel frattempo, la mia famiglia aspettava fuori. Mia moglie e mia madre erano entrambe in lacrime, e in seguito mi dissero d’essere state confortate da una donna ebrea che era in attesa del risultato dell’operazione di un suo parente.
Nel mezzo dell’odio, della rabbia e dei lutti del conflitto, si possono tuttavia vedere squarci di bontà. Purtroppo sono luci che spesso passano inosservate. Eppure esse offrono un esempio pratico del sogno che tutti noi condividiamo di un futuro in cui si possa vivere una vita piena e sicura senza la paura d’essere colpiti.
Il mio intervento andò benissimo, e sono rapidamente guarito. Inoltre, attraverso quest’esperienza dolorosa, ho potuto intravedere un barlume di speranza in quello che sembra un contesto senza speranza. Ho molte critiche da muovere alla politica d’Israele, ma il funzionamento del sistema sanitario israeliano e la sua capacità di separare nettamente la politica dalla medicina si sono guadagnati tutta la mia ammirazione.
Questo non vuol dire che il sistema sia perfetto. Come in ogni cosa che Israele e la Palestina si trovino a condividere, c’è sempre il rischio di essere depistati da intoppi assicurativi o burocratici. Ma al momento del dunque, medici israeliani e palestinesi condividono un impegno verso la vita umana che ignora le differenze etniche, religiose e nazionali. E quando viene il momento di scegliere un medico, basiamo la nostra scelta solo sul principio di quale di essi sarà più probabile che promuova la vita umana. Se solo votassimo in base allo stesso principio…
Sfortunatamente ho dovuto sperimentare di persona il sistema sanitario per poter apprezzare questo esempio di ciò che israeliani e palestinesi possono realizzare insieme. Nonostante i dolori e la sofferenza, sono grato di aver scoperto un tale tesoro nascosto dove l’umanità dà il meglio di sé.

(Da: Jerusalem Post, 23.08.10)

Nell’immagine in alto: Aziz Abu Sarah, autore di questo articolo