Per non affondare nel “divario della pace”

I palestinesi sono lontani anni luce dall’essere pronti per un accomodamento amichevole con Israele

Di David M. Weinberg

David M. Weinberg, autore di questo articolo

David M. Weinberg, autore di questo articolo

E’ possibile opporsi all’attuazione della soluzione a due stati nelle attuali circostanze, pur essendo favorevoli a tale soluzione in linea di principio? La risposta è sì, tant’è vero che questa è di fatto la posizione sia del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, sia del partito laburista per come l’ha espressa a fine gennaio il capo dell’opposizione Isaac Herzog. E’ dunque tempo di prendersi un momento per riflettere su questo complicato punto di consenso israeliano, e calibrare di conseguenza la posizione diplomatica.

In un discorso ufficiale e una franca intervista radiofonica per cui è stato rabbiosamente attaccato da tutta l’estrema sinistra, Herzog ha dichiarato una cosa ovvia: la soluzione a due stati “non è realistica” nella realtà attuale tra Israele e palestinesi. Nell’impossibilità di “realizzarla ora”, Herzog ha garantito di continuare ad “aspirare” a una soluzione a due stati pur ammettendo onestamente che un governo laburista non potrebbe dare vita a uno stato palestinese più rapidamente di quanto non faccia il governo Netanyahu. Per l’intanto il piano proposto da Herzog in Cisgiordania prevede un aumento delle misure di sicurezza attorno a città e villaggi israeliani (recinzioni) e una più netta separazione dai palestinesi (più recinzioni), accompagnata da misure per creare fiducia (maggiore assistenza economica ai palestinesi, una politica degli insediamenti più misurata e mirata, un giro di vite contro i “cattivi maestri” predicatori e professionisti del terrorismo). Suona familiare? Essenzialmente si tratta di una sintesi dell’approccio di Netanyahu. Il massimo che Herzog riesce a dire per distinguersi da Netanyahu è che lui sarebbe “più severo” nell’applicare la dura politica di sicurezza e la moderata politica sugli insediamenti di cui parlano entrambi i leader.

Isaac Herzog, leader dell’opposizione laburista israeliana, e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu

Herzog nega stizzosamente di abbracciare la cosiddetta “gestione del conflitto”, perché questo è un termine fortemente associato alla destra. Ma in sostanza ciò di cui parla Herzog è proprio di gestire il conflitto a lungo termine nell’ardente attesa di giorni migliori e soprattutto di leader palestinesi più saggi. Come Netanyahu, Herzog ritiene che le Forze di Difesa israeliane debbano rimanere in Cisgiordania e in particolare nella Valle del Giordano per mantenere in sicurezza il confine orientale d’Israele. E come Netanyahu e il leader di Yesh Atid, Yair Lapid, Herzog vorrebbe una conferenza sulla sicurezza regionale con i paesi arabi che condividono le preoccupazioni di Israele, allo scopo di discutere nuovi paradigmi di una diplomazia di pace che vadano oltre l’angusta formula due stati. (Si vedano ad esempio le proposte creative del generale Giora Eiland per scambi di terra “a quattro” e accordi di sovranità condivisa con Egitto e Giordania, pubblicate dal Begin-Sadat Center for Strategic Studies; così come le lucide proposte per misure “a metà strada” del professor Shlomo Avineri, pubblicate da Foreign Affairs; oppure le ragionevoli proposte per progressi “tangibili” dell’ex negoziatore di pace Tal Becker, pubblicate dall’Institute for Near East Policy di Washington).

Per farla breve, uno stato palestinese completamente smilitarizzato e veramente democratico (in Cisgiordania, se non anche a Gaza, e alleato della Giordania o in essa contenuto), che viva in pace accanto a Israele, con ebrei e arabi liberi di vivere indisturbati su entrambi i lati della frontiera, sarebbe la soluzione ideale del conflitto. Ma fino a quando un cambiamento epocale nella cultura politica palestinese non la renderà un’opzione reale anziché un bel sogno, nessun governo israeliano razionale prenderà in considerazione un significativo ritiro da Giudea e Samaria. Questo è il punto di consenso in Israele: limitato, ma reale e importante.

“Trasmissioni e giornali palestinesi traboccano di propaganda ferocemente antisemita e sanguinaria”

Purtroppo l’amministrazione Obama e gran parte della comunità internazionale continuano a pensare messianicamente che debba essere diligentemente perseguita l’immediata istituzione di uno stato palestinese mediante pressioni su Israele, prescindendo completamente dalle circostanze concrete in cui ci troviamo e dall’evidente mancanza di interesse da parte palestinese verso l’attuazione di un tale schema. A tal fine, alcuni stanno anche pensando a una risoluzione da far approvare nel 2016 al Consiglio di Sicurezza che vanificherebbe la risoluzione 242 (confini sicuri e negoziati) puntando invece a imporre i parametri e il calendario di un ritiro israeliano. Altri stanno già cercando di fare pressione e isolare Israele attraverso etichettature, reprimende, condanne e boicottaggi di vario genere.

Ma le persone che si dichiarano amiche di Israele dovrebbero respingere questo percorso. La fiducia che un improvviso ritiro israeliano dalla Cisgiordania crei magicamente la pace è del tutto infondata: è una convinzione che non si può definire altro che cieca rispetto alla realtà, e ostile rispetto alla sicurezza di Israele. E’ in contrasto con il punto di vista, basato sull’esperienza, condiviso dalla stragrande maggioranza degli israeliani e dei loro leader politici. Non è coerente con sentimenti di amicizia verso lo stato ebraico.

Ciò che dovrebbe fare il mondo, invece, è aiutare a colmare il “divario della pace”. Cioè aiutare i leader palestinesi a condurre la loro gente verso i livelli di compromesso e di moderazione che gli israeliani hanno raggiunto da tempo. Si consideri questo fatto. Come risultato di un intenso processo politico-educativo, gli israeliani hanno spostato enormemente le loro posizioni negli ultimi trent’anni: sono passati dal considerare i palestinesi un mero strumento manovrato dal mondo arabo nella sua guerra contro Israele, al riconoscimento dell’identità palestinese e delle sue aspirazioni nazionali, quindi del diritto a uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza purché smilitarizzato e in pace con Israele. Israele ha anche ritirato completamente tutti i suoi civili e militari dalla striscia di Gaza e ha acconsentito all’istituzione di un’autorità palestinese che governa su più del 95% degli abitanti arabi della Cisgiordania. Israele ha sottoposto all’Autorità Palestinese almeno tre offerte concrete per la nascita di uno stato palestinese a pieno titolo su più del 90% del territorio di Cisgiordania, tutte e tre respinte da Yasser Arafat e da Abu Mazen.

Tutta la propaganda palestinese mostra chiaramente il proprio obiettivo: la cancellazione di Israele dalla carta geografica

Per contro, i palestinesi non si sono spostati dalla loro intransigenza in direzione della pace con Israele. Molte importanti personalità politiche e religiose palestinesi continuano a negare i legami storici del popolo ebraico con la Terra d’Israele, e si rifiutano di accettare la legittimità dell’esistenza di Israele in Medio Oriente come stato nazionale del popolo ebraico (del quale negano pure la natura di popolo con diritti di nazionalità). Continuano a pretendere il reinsediamento dei profughi palestinesi (e di intere generazioni di loro discendenti) all’interno di Israele pre-‘67 per inondare e cancellare lo stato ebraico. Appoggiano e glorificano gli attentatori suicidi palestinesi e tutti coloro che prendono di mira la popolazione civile israeliana lanciando missili, sparando, accoltellando. Trasmissioni e giornali palestinesi traboccano di propaganda ferocemente antisemita e sanguinaria. I capi palestinesi girano per tutto il mondo facendo pressione su ogni istituzione internazionale perché Israele venga censurato, condannato, denigrato, isolato, criminalizzato.

C’è dunque un enorme divario tra i due popoli nella loro disponibilità alla pace. E’ semplicemente falso che israeliani e palestinesi sono egualmente pronti ad accettarsi a vicenda e ad accettare compromessi reciproci. Non è vero che entrambe le parti sono pronte a fare ardui sacrifici per la pace. Su questo non c’è alcun “equilibrio”. La verità è che i palestinesi sono lontani anni luce dall’essere pronti per un accomodamento amichevole con Israele, mentre gli israeliani non vedono l’ora di arrivare a un accordo equo con i palestinesi. Questa asimmetria sta al cuore del conflitto e spiega come mai da almeno cinque anni i capi palestinesi si rifiutano accuratamente di tornare a negoziati di pace diretti con Israele senza precondizioni. Sanno che nei colloqui di pace reali anche loro dovrebbero accettare dei compromessi, e sanno che né loro né la loro gente sono pronti a farlo.

Senza un serio tentativo di colmare questo divario della pace, tutte le nuove iniziative diplomatiche falliranno: saranno destinate ad affondare nelle sabbie mobili dell’intransigenza palestinese, naufragheranno nel divario della pace. La comunità internazionale dovrebbe adoperarsi per far retrocedere il massimalismo palestinese, non per piegare la prudenza israeliana. Una ragionevole diplomazia che eviti l’incauta richiesta di due stati “ora” e prema per una vera educazione alla pace palestinese è l’unico modo realistico di promuovere un’autentica composizione del conflitto israelo-palestinese.

(Da: Israel HaYom, 29.1.16)