Perché i palestinesi si oppongono al negoziato?

Otterrebbero uno stato con capitale a Gerusalemme est e lo sgombero del grosso degli insediamenti, ma tengono duro sperando in una soluzione imposta dall’esterno senza dover firmare la pace definitiva con Israele

di Marco Paganoni, dicembre 2009

image_2695Poco meno di un anno fa sembrava chiaro come si stessero mettendo le cose. A Gerusalemme entrava in carica il nuovo governo guidato dal “falco” Benjamin Netanyahu (31 marzo), con l’“impresentabile” Avigdor Liberman agli esteri; alla Casa Bianca aveva fatto il suo ingresso Barack Obama (20 gennaio), il presidente più “sensibile” alla causa palestinese di tutta la storia americana; la Lega Araba metteva Israele spalle al muro ribadendo la sua apparentemente equilibratissima “iniziativa saudita”. Pesantemente attaccato all’estero per le accuse sull’operazione anti-Hamas a Gaza (poco importa quanto fondate), lacerato all’interno dall’estenuante trattativa per la liberazione dell’ostaggio Gilad Shalit, Israele era chiamato ancora una volta a giustificarsi e scagionarsi. Lo stesso Obama, nel suo attesissimo intervento al Cairo (4 giugno), riaffermando con forza la formula “due stati per due popoli” sembrava quasi sfidare Israele a fare altrettanto, se solo ne avesse avuto il coraggio.
Evidentemente il coraggio l’aveva, e nel giro di pochi mesi le carte si sono rimescolate. Due le mosse di Netanyahu che hanno ribaltato il quadro, secondo Guy Bechor (YnetNews 12.10.09). Innanzitutto (col discorso del 14 giugno), la dichiarata disponibilità a sostenere la nascita di uno stato palestinese, purché smilitarizzato e in pace con il vicino “stato ebraico”: un’offerta che, in teoria, i palestinesi avrebbero dovuto precipitarsi a raccogliere, se fossero seriamente interessati a questa soluzione, come altri hanno fatto in situazioni anche meno favorevoli (un esempio per tutti: Ben Gurion nel 1947). “Se i palestinesi sono tanto miserabili, e desiderano tanto sbarazzarsi degli insediamenti – nota Barry Rubin (Jerusalem Post, 7.12.09) – da tempo hanno una soluzione a portata di mano: firmare la pace. Il loro più ovvio interesse dovrebbe essere quello di fare un accordo decente il più presto possibile”. E continua: “Firmando un accordo, avrebbero uno stato indipendente con capitale a Gerusalemme est e potrebbero contare su un’enorme simpatia occidentale che li aiuterebbe ad ottenere le migliori condizioni possibili sugli altri aspetti. Certo, dovrebbero accettare che il trattato di pace ponga fine al conflitto, il che sembrerebbe perfettamente logico”.
Il 25 novembre, seconda mossa: la moratoria di dieci mesi decretata su tutte le nuove costruzioni negli insediamenti di Cisgiordania, un gesto con cui Netanyahu, come ha riconosciuto persino il compassato mediatore Usa George Mitchell, “si è spinto più avanti di qualunque precedente governo israeliano”. Così, per il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) diventa sempre più difficile giustificare il rifiuto di trattare. “Mentre Israele è pronto a negoziare qui e ora – nota Bechor – i palestinesi pongono precondizioni per parlare con Israele come se non vi fossero già stati il riconoscimento reciproco, il processo di Oslo, gli accordi firmati”. Lo stesso Abu Mazen, parlando la sera dell’11 novembre a un gruppo di businessmen palestinesi a Ramallah, ha ammesso: “Eravamo molto vicini alla conclusione di un accordo con la controparte, quando venne costituito il nuovo governo israeliano e abbiamo dovuto ricominciare da zero”. È mai possibile che l’accordo sia sempre sfiorato… nel negoziato precedente? Come sia andata questa ennesima volta, l’ha spiegato il premier di allora Ehud Olmert: “I palestinesi fecero un tragico errore non rispondendo alla mia offerta” (“Hard Talk” BBC, 25.9.09). Ad ogni buon conto, Abu Mazen non ci dice perché mai, ai tempi di Olmert e Tzipi Livni, il blocco totale degli insediamenti non fosse una clausola sine qua non per negoziare. “Con tutta evidenza – scrive il Jerusalem Post (8.12.09) – la richiesta di Abu Mazen di congelare gli insediamenti è fasulla. Il prospettato accordo di pace risolverebbe in modo permanente la questione di dove gli ebrei possano vivere e di quali insediamenti debbano essere sgomberati. Dunque, perché stare a discutere di un congelamento quando si potrebbe stabilire col negoziato i confini definitivi?”. E risponde: “La vera ragione per cui Abu Mazen non vuole trattare è perché spera, tenendo duro, che un’esasperata amministrazione americana finisca con l’imporre a Israele la posizione dell’Olp”.
Netanyahu l’ha detto chiaramente al ministro degli esteri italiano Franco Frattini nell’incontro-lampo del 9 dicembre: se prima la sensazione a Gerusalemme era che Abu Mazen rifiutasse il negoziato per via della “natura disfunzionale della scena politica palestinese”, ora invece l’impressione è che l’erede di Arafat abbia adottato la strategia di sottrarsi ai colloqui nella convinzione che gli convenga puntare i piedi, in attesa che la soluzione venga imposta a Israele dall’esterno. Convinzione probabilmente rafforzata dalla tiepidissima reazione con cui la comunità internazionale ha accolto gli sforzi di Israele, per non dire del tentativo della Svezia, ultima presidenza di turno della UE, di far passare l’8 dicembre a Bruxelles un documento inteso a precostituire il risultato dei negoziati su Gerusalemme in senso favorevole alla sola parte palestinese. Il tentativo è fallito, ma comunque il testo finale della risoluzione afferma che “l’Unione Europa non riconosce alcun cambiamento alle frontiere pre-1967, inclusa Gerusalemme”: affermazione altamente problematica, dato che tutti gli accordi di pace fino alla Road Map compresa prevedono che il negoziato fra le parti stabilisca, tra l’altro, il futuro confine fra i due stati, il quale pertanto non dovrà necessariamente coincidere con le linee armistiziali provvisorie (mai riconosciute come “frontiere”) in vigore fra Israele e Giordania negli anni 1949-’67.
Ma il calcolo palestinese potrebbe rivelarsi sbagliato. Lo dimostra la sconfitta diplomatica che si sono procurati quando, pur di non negoziare con Israele, se ne sono usciti con l’idea di una “dichiarazione d’indipendenza unilaterale”. Gli Stati Uniti hanno subito chiarito che non avrebbero mai appoggiato una tale mossa, e la stessa UE ha detto che non poteva appoggiare una scelta in totale contraddizione col principio del riconoscimento reciproco e della soluzione negoziata.
“La sensazione – scrive Herb Keinon (Jerusalem Post, 11.12.09) – è che Washington si aspettasse qualche passo avanti, dopo la moratoria dichiarata da Netantyahu; ma di fronte al silenzio dei palestinesi avrebbe deciso di tirarsi un po’ da parte e stare a guardare cosa succede. Non che gli americani abbiano gettato la spugna, ma certamente vogliono capire meglio quanto contano le loro pressioni diplomatiche”. Non si dimentichi che da parecchi mesi l’amministrazione Obama chiede – invano – ai paesi arabi di fare a loro volta dei gesti che dimostrino coi fatti che la decantata “iniziativa araba” non è solo una manovra propagandistica. Le idee non mancano: i capi di stato arabi potrebbero riconoscere la legittimità di Israele come stato nazionale del popolo ebraico, rappresentare Israele sulle mappe usate nelle loro scuole, porre fine alle campagne di odio anti-ebraico sui loro mass-media, incoraggiare incontri e scambi fra scienziati, artisti ed atleti, cessare le azioni anti-Israele nei forum internazionali, cacciare i gruppi terroristici votati alla distruzione di Israele che spesso (come a Damasco) operano alla luce del sole, porre fine al boicottaggio economico arabo, vendere petrolio a Israele, permettere voli diretti fra Israele e paesi mediorientali e l’ingresso di visitatori israeliani, permettere l’apertura reciproca di uffici commerciali, o anche solo recarsi a Gerusalemme: è noto ad esempio che Hosni Mubarak, presidente d’Egitto dal 1981, non ha mai fatto una visita ufficiale in Israele nonostante la pace firmata trent’anni fa tra i due paesi.
Secondo fonti ben informate, gli americani sono sì delusi da alcune scelte israeliane (come le nuove case a Gilo), ma sono soprattutto frustrati dall’immobilismo arabo, e mandano a dire ai palestinesi di non farsi illusioni su una precoce “estromissione” di Netanyahu. “Probabilmente – azzarda Guy Bechor – Abu Mazen e soci si sono già giocati in gran parte il nuovo presidente americano, e al momento non hanno la minima idea di come rispondere a Netanyahu, che è lì che li aspetta al tavolo negoziale”. Brutta faccenda perché – l’esperienza insegna – la tipica modalità con cui i palestinesi cercano di uscire da un vicolo cieco è il ricorso alla violenza.

Nell’immagine in alto: Le mappe della propaganda palestinese indicano esplicitamente la rivendicazione territoriale: lo stato di Israele è cancellato