Perché Abu Mazen non segue le orme di Sadat

Il presidente palestinese vuole rimanere al potere abbastanza a lungo da garantire che i suoi figli non vengano uccisi dai suoi successori. E il modo migliore è continuare a calunniare Israele

Di Ruthie Blum

Ruthie Blum, autrice di questo articolo

Ruthie Blum, autrice di questo articolo

Lo scorso fine settimana cadeva il 39esimo anniversario della storica visita a Gerusalemme del presidente egiziano Anwar Sadat, una scelta che scaturì alla decisione del leader arabo di passare dal campo filo-sovietico a quello filo-americano. Invece di facilitare quel colossale cambiamento in Medio Oriente, l’allora presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter – il presidente democratico la cui miscela di incompetenza e di velleitarismo gauchista avrebbe aperto la strada all’elezione del rivale repubblicano Ronald Reagan – fece del suo meglio per creare un pasticcio.

Succube di una illusoria concezione della politica globale e del concetto di pace, Carter cercò di impedire a Sadat e al primo ministro israeliano Menachem Begin di portare a termine da soli il delicato processo, e spinse invece per un coinvolgimento nei negoziati dell’Unione Sovietica, il nemico giurato del suo paese. Il che costrinse Sadat e Begin a operare alle spalle proprio della persona che avrebbe dovuto farsi paladino del loro sforzo di tenere fuori Mosca. Ecco perché la celeberrima foto di Sadat, Begin e Carter che si stringono le mane sul prato della Casa Bianca per la firma del trattato – che sarebbe poi costato la vita a Sadat – dà un certo qual senso di nausea. Se c’era qualcuno che sarebbe dovuto restare fuori da quella foto, era proprio Carter. E infatti, meno di un anno dopo ci pensò l’elettorato americano a negargli il rinnovo del mandato per via dei suoi stravaganti sforzi di indebolire la posizione internazionale del proprio paese. Anche il suo famoso sorriso a 32 denti non poteva mascherare il fatto che i diplomatici statunitensi erano stati presi in ostaggio a Teheran dai rivoluzionari islamisti che avevano spodestato lo Scià di Persia sotto il naso di Carter.

Washington, 26 marzo 1979. Il presidente egiziano Anwar Sadat, il presidente Usa Jimmy Carter e il primo ministro israeliano Menachem Begin alla firma del trattato di pace tra Egitto e Israele sul prato della Casa Bianca

Washington, 26 marzo 1979. Il presidente egiziano Anwar Sadat, il presidente Usa Jimmy Carter e il primo ministro israeliano Menachem Begin alla firma del trattato di pace tra Egitto e Israele sul prato della Casa Bianca

Un’altra celeberrima, e inquietante, istantanea scattata sul prato della Casa Bianca è quella di quattordici anni dopo. Essa mostra il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton che strige le mani del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e del capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat, in occasione della firma degli accordi di Oslo, che sarebbero costati la vita di Rabin e che catapultarono l’arci-terrorista palestinese nella legittimità internazionale fino a procurargli il premio Nobel per la pace. A quel punto l’Unione Sovietica era crollata – grazie a Reagan – lasciando gli Stati Uniti nel ruolo di unica superpotenza mondiale e non c’era una vera spinta verso la real-politik, a parte l’eterna illusione di Israele e Stati Uniti di poter dare soddisfazione ad Arafat e ai suoi per indurli a rinunciare all’obiettivo di cancellare lo stato ebraico dalla carta geografica.

Quell’obiettivo apparve di nuovo in tutta la sua evidenza nel 2000, quando il primo ministro israeliano Ehud Barak cercò di siglare un accordo a Camp David offrendo ad Arafat ogni possibile concessione che non fosse quella di gettare a mare gli ebrei. La risposta di Arafat fu quella di lanciare una guerra di logoramento fatta di attentati suicidi contro innocenti israeliani sugli autobus e nei caffè. E funzionò. E’ vero che Barak subì una secca sconfitta elettorale ad opera di Ariel Sharon proprio a causa della sua cattiva gestione della grave minaccia terroristica voluta da un Arafat tutt’altro che cambiato; ma poi fu proprio Sharon a decidere di rispondere all’ondata di stragi ritirando dalla striscia di Gaza tutti gli ebrei, civili e militari. Nell’arco di meno di due anni Hamas prese il controllo dell’enclave, trasformandola in una base missilistica islamista.

Washington, 13 settembre 1993. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il presidente Usa Bill Clinton e il capo dell’Olp Yasser Arafat alla firma dell’accordo di Oslo sul prato della Casa Bianca

Washington, 13 settembre 1993. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il presidente Usa Bill Clinton e il capo dell’Olp Yasser Arafat alla firma dell’accordo di Oslo sul prato della Casa Bianca

Intanto, nel corso dei decenni – nonostante il persistente antisemitismo nella stampa e nelle piazze egiziane – il trattato di pace con il Cairo è rimasto in vigore. Non è certo una pace calorosa, ma perlomeno quel paese arabo ha smesso di fare la guerra a Israele. E quindi non c’è stata più guerra fra i due paesi. Anzi, sotto l’attuale presidente egiziano Abdel-Fattah el-Sissi si sono fatti più progressi su questo piano che in tutti i quarant’anni precedenti. Invece l’Autorità Palestinese sotto Mahmoud Abbas (Abu Mazen), il successore di Arafat, continua a fomentare l’odio contro Israele e a incoraggiare il terrorismo, insistendo nel frattempo a proclamare al mondo che l’unico verso ostacolo alla pace sono gli insediamenti israeliani.

Aprendo domenica la riunione settimanale del governo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sottolineato la differenza, sotto questo aspetto, fra Egitto e palestinesi. Abu Mazen, ha detto, si rifiuta di intrattenere negoziati diretti senza porre precondizioni. Quello che Netanyahu non ha detto è che l’obiettivo di cancellare lo stato ebraico non è l’unico motivo che spiega il comportamento di Abu Mazen. Ancora più cruciale, per lui personalmente, è restare in gioco e restare al timone abbastanza a lungo da garantire che i suoi figli non vengano uccisi dai suoi successori. E l’unico modo per farlo è continuare a diffamare Israele: una pratica su cui sa di poter contare impunemente, grazie anche al risveglio dell’antisemitismo in Occidente.

TV ufficiale dell’Autorità Palestinese, 27 luglio 2016. Il presidente Abu Mazen: “Lo abbiamo detto: non riconosceremo Israele come stato ebraico”

Un’espressione di questa messinscena si è svolta domenica scorsa nel microcosmo del mondo diplomatico di stanza a Santiago, in Cile. La moglie dell’ambasciatore d’Israele Eldad Hayet non è stata invitata a un evento di beneficenza a cui ogni anno vengono inviati i coniugi di tutti gli ambasciatori stranieri accreditati nel paese. Gli organizzatori hanno spiegato che la signora Michal Hayet non avrebbe potuto partecipare perché il luogo scelto per l’evento era il Club Palestinese di Santiago. La sua stessa presenza, a quanto pare, avrebbe offeso i membri dell’esclusivo club socio-sportivo. Diversi ambasciatori, tra cui quello degli Stati Uniti e quello dell’Unione Europea, hanno deciso di disertare l’evento in segno di protesta. Ma il fatto stesso che un tale incidente abbia avuto luogo dimostra la capacità che ha la lobby palestinese, assecondata da un governo occidentale, di continuare a ostracizzare lo stato ebraico e a rifiutarlo in quanto tale.

Nel frattempo giungeva notizia che la Francia potrebbe rinunciare a convocare la sua conferenza internazionale sul comatoso “processo di pace” israelo-palestinese. Non che la cosa conti granché: Israele ha già detto che non vi prenderà parte, e comunque non potrebbe uscirne nulla di positivo. Infatti, come avvenne con Sadat nel 1977, quando è in corso un conflitto l’unica molla possibile per arrivare a un trattato sulla cessazione della guerra è il tornaconto sulla scena mondiale. Ma dal punto di vista di Abu Mazen, arrivare a un accordo con Israele rappresenta esattamente il contrario del suo tornaconto.

Dunque, l’unica cosa utile che la comunità internazionale, e in particolare gli Stati Uniti, potrebbero fare è fare in modo che alla dirigenza palestinese – qualsiasi dirigenza palestinese – non convenga più alimentare il conflitto e allearsi con quello che George W. Bush definì l’”asse del male”. Tutto qui.

(Da: Israel HaYom, 22.11.16)