Perché Netanyahu insiste sul riconoscimento del diritto d’Israele come stato nazionale ebraico

I palestinesi non riescono ad accettare la fine del conflitto perché non riescono ad accettare compromessi con un nemico che considerano il Male assoluto

Di Haviv Rettig Gur

Haviv Rettig Gur, autore di questo articolo

Haviv Rettig Gur, autore di questo articolo

Domenica sera all’Università Bar-Ilan il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha pronunciato un discorso che poteva sembrare arrogante e stizzoso. Tra riferimenti alla Shoà e critiche alla dirigenza palestinese passata e presente, Netanyahu ha ribadito la richiesta all’Autorità Palestinese di riconoscere non solo il fatto incontestabile che Israele esiste, ma anche il diritto storico degli ebrei ad avere un proprio Stato sovrano in questa terra. Come ha causticamente suggerito un critico, Netanyahu ha chiesto che i palestinesi diventino sionisti perché si possa arrivare alla pace. Solo a quel punto, secondo Netanyahu, i negoziati attualmente in corso potranno essere “significativi” e avere “una reale possibilità di successo”.

Si è tentati di aderire all’opinione prevalente nella “espertocrazia” globale secondo la quale Netanyahu sta solo puntano i piedi contro l’avanzare dei negoziati, creando ostacoli artificiali allo scopo di evitare i dolorosi compromessi che verosimilmente dovrà accettare per fare la pace. Ma è una lettura sbagliata.

Se Netanyahu nel profondo del suo cuore desideri o meno un accordo di pace con i palestinesi è questione che va al di là della comprensione di qualsiasi commentatore, e forse dello stesso Netanyahu. Ma la sua richiesta di riconoscimento da parte palestinese del carattere ebraico di Israele (cioè di Israele come stato nazionale del popolo ebraico) non è una manovra tattica a buon mercato. È anzi la chiave per comprendere la sua lettura del conflitto, la sua visione del perché il processo di Oslo di vent’anni anni fa non ha avuto successo, e la sua sfiducia verso il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) in questo nuovo round di trattative.

Un esempio di rappresentazione demonizzante del nemico, tratto dalla Tv ufficiale dell’Autorità Palestinese (Fonte: palwatch.org)

Un esempio di rappresentazione demonizzante del nemico, tratto dalla Tv ufficiale dell’Autorità Palestinese (Fonte: palwatch.org)

Quando i “falchi” israeliani lamentano la continua celebrazione da parte dell’Autorità Palestinese della violenza e dell’odio verso Israele, le “colombe” amano rispondere: “E’ coi nemici che si fa la pace”. Ma Netanyahu la vede diversamente: non sull’istigazione all’odio dell’Autorità Palestinese, ma sulla natura di un processo pacificazione.

Una volta, un leader occidentale che cercò di fare la pace con il suo nemico si ritrovò politicamente delegittimato e trasformato nello zimbello della storia. Quel leader era Neville Chamberlain e il nemico era Adolf Hitler. Invece un altro leader che cercò di ricomporre una società lacerata da discordie razziali divenne una figura universalmente ammirata, e la sua opera per la pacificazione continua ancora a sanare e riconciliare molto tempo dopo la sua morte. Quel leader era Martin Luther King e il suo nemico era il razzismo bianco che aveva tormentato i neri d’America attraverso secoli di schiavitù e ingiustizie. La differenza tra il fallimento di Chamberlain e il successo di Martin Luther King si deve, in parte, alla concezione del “nemico” che avevano le loro rispettive opinioni pubbliche. Poco dopo la Conferenza di Monaco, i britannici giunsero a vedere Hitler come implacabilmente malvagio e gli sforzi di pacificazione di Chamberlain come il tentativo di scendere a patti con il Male assoluto (che questa visione di Hitler fosse effettivamente corretta non è qui il punto: qui ci interessa la percezione psicologica).

Un altro esempio di rappresentazione demonizzante del nemico, tratto dalla Tv ufficiale dell’Autorità Palestinese (Fonte: palwatch.org)

Un altro esempio di rappresentazione demonizzante del nemico, tratto dalla Tv ufficiale dell’Autorità Palestinese (Fonte: palwatch.org)

Per contro Martin Luther King, che certamente non chiedeva ai neri americani si fare la pace con gli assassini del Ku Klux Klan o coi governatori razzisti degli Stati del sud, esortava però i suoi a riconciliarsi con gli aspetti giusti dell’America bianca: la promessa di libertà, indipendentemente da quanto a lungo negata; la fede nella propria missione morale, indipendentemente da quanto potesse apparire ipocrita il moralismo americano agli occhi dei neri sofferenti. C’è del buono nel nostro nemico, diceva Martin Luther King ai suoi seguaci, e si può fare la pace con quel che c’è di buono.

Stiamo parlando di psicologia della leadership. Se il nemico è visto come un male irriducibile, l’opera di pacificazione diventa di necessità una catastrofe politica. Solo quando il nemico è visto come un soggetto che ha dalla propria parte un po’ di ragioni e di diritto, gli sforzi di un leader per scendere a patti con quel nemico diventano legittimi e politicamente accettabili.

Questa differente percezione del nemico ha verosimilmente giocato un ruolo notevole nella storia recente di Israele. Negli anni ‘90, gli israeliani che hanno sinceramente creduto che il processo di pace di Oslo rispondesse alla giusta richiesta di autodeterminazione dei palestinesi hanno visto nel primo ministro Yitzhak Rabin un eroe nazionale, un “guerriero per la pace”. Quelli che invece vedevano nei palestinesi un nemico implacabile considerarono il processo di Oslo una pericolosa follia, se non addirittura un vero e proprio tradimento.

Tutta l’iconografia nazionalista palestinese non prevede compromessi, ma la cancellazione di Israele dalla mappa geografica

Tutta l’iconografia nazionalista palestinese non prevede compromessi, ma la cancellazione di Israele dalla mappa geografica

La richiesta di riconoscimento ribadita da Netanyahu affonda le sue radici in questa esperienza israeliana. I palestinesi non riescono ad accettare la fine al conflitto – è la convinzione di Netanyahu – perché non riescono ad accettare compromessi con un nemico che considerano totalmente malvagio. Non hanno ancora abbandonato la percezione del loro nemico come Male assoluto, per vederlo invece come un soggetto dotato di un po’ di ragioni e di diritto, per quanto limitati. Israele rimane il nemico per eccellenza, e gli israeliani gli intrusi che hanno defraudato un altro popolo della patria. Anche i palestinesi più moderati condividono questa visione di fondo di Israele come il Male: probabilmente ormai troppo radicato per essere rimosso, ma pur sempre un Male assoluto. Israele – pensano – non ha nemmeno un briciolo di ragione o di diritto dalla sua parte, solo la forza bruta. Sicché qualunque leader palestinese che cerchi di fare la pace con Israele cade nella “trappola di Chamberlain”, ritrovandosi delegittimato dalla percezione diffusa fra la sua gente che egli stia scendendo a patti con il Male anziché perseguire la Giustizia.

Questa analisi costituisce un elemento fondamentale della politica di Netanyahu verso i palestinesi, caratterizzando alcuni dei suoi discorsi più fraintesi e delle sue richieste meno capite. E costituisce il motivo per cui per cui Netanyahu non manca mai di soffermarsi sul millenario attaccamento del popolo ebraico alla Terra di Israele, nei suoi discorsi davanti a un’Assemblea Generale dell’Onu a cui non potrebbe importare di meno.

Non occorre che i palestinesi diventino sionisti – è la convinzione di Netanyahu – ma occorre che giungano a percepire che anche le richieste degli ebrei hanno un fondamento nella giustizia e nel diritto. Solo a quel punto la loro opinione pubblica interna e le loro istituzioni politiche saranno in grado di impegnarsi veramente per la pace.

È sbagliato vedere nell’ultimo discorso di Netanyahu all’Università Bar-Ilan l’indicazione di una sua presunta volontà di tirarsi indietro, anche nei toni, dai colloqui di pace. In realtà, la rinnovata urgenza della sua richiesta di riconoscimento – che dal suo punto di vista è cruciale per pace – potrebbe anzi indicare che i colloqui stanno iniziando finalmente a funzionare sul serio.

(Da: Times of Israel, 7.10.13)

Il testo del discorso di Benjamin Netanyahu all’Università Bar-Ilan, 6 ottobre 2013 (in inglese)